La dimensione della porzione di cibo è un forte determinante dell’assunzione complessiva di energia: ecco perché è importante che la scelta della porzione sia corretta e adeguata a stile di vita, fabbisogno e caratteristiche individuali. Eppure la percezione delle porzioni, intese come quantità dei diversi alimenti da inserire nella rotazione settimanale nel contesto di una dieta variata, si è modificata nei decenni più recenti.
E non in meglio: oggi, infatti, vengono ritenute accettabili quantità medie di cibo decisamente superiori rispetto a una trentina d’anni fa. Un’alterata percezione delle porzioni rende più complesso non solo seguire una dieta bilanciata, che contribuisca a tenere sotto controllo nel tempo il peso, ma anche (e soprattutto) attenersi a indicazioni restrittive, quando è necessario perdere chili di troppo.
D’altro canto, le linee guida per una corretta alimentazione forniscono indicazioni precise su quantità e frequenze di assunzione, anche se a volte appaiono poco aderenti alla realtà quotidiana.
Si tratta di due aspetti che impattano non poco sul rapporto con il cibo, soprattutto per chi deve impegnarsi in un percorso mirato alla perdita ponderale. Ne parliamo con Michele Sculati, medico e specialista in Scienza dell’Alimentazione.
DOMANDA: Perché è cambiata la percezione delle porzioni medie?RISPOSTA: Il mondo delle porzioni è oggi davvero complesso, per chi consuma, ma anche per lo specialista medico, che deve trasferire alla popolazione messaggi corretti e accettabili.
Partiamo da alcuni dati di fatto: l’uomo, come qualunque mammifero, tende a mangiare più del necessario; oggi, nella maggior parte dei contesti sociali, l’accesso al cibo è più facile, ma il dispendio energetico è insufficiente a pareggiare il bilancio con le calorie assunte.
Inoltre, non c’è dubbio che la dimensione media delle porzioni di cibo, nei luoghi di ristorazione più frequentati, sia aumentata.
È stata una modificazione progressiva, ma ad alto impatto. Basti pensare all’epidemia di obesità statunitense: tra le cause riconosciute come determinanti, c’è anche l’aumento delle dimensioni delle porzioni offerte, che si sono progressivamente allontanate da quelle delle “porzioni corrette”.
In Italia, l’esempio classico è quello della pizza: fino a tutti gli anni ’80, una pizza tonda media pesava attorno ai 250 grammi; condita con olio, pomodoro e mozzarella forniva circa 700 calorie. Oggi la pizza margherita media pesa circa 350 grammi, il 35% in più.
Secondo le tabelle BDA-IEO (Banca Dati di composizione degli Alimenti dell’Istituto Europeo di Oncologia) questa pizza fornisce 970 calorie o più, per non parlare del sale in eccesso (ne fa fede la sensazione di sete successiva) e dei carboidrati ad alto indice glicemico (chi soffre di diabete di tipo 1 deve quasi raddoppiare l’apporto di insulina).
Anche i LARN (Livelli di Assunzione Raccomandati di energia e Nutrienti), pubblicati nel 2014, indicano come porzione una pizza da 350 grammi, accettando un dato di fatto.
Attenzione, però: non si tratta di un “via libera” al consumo della pizza accompagnata da altri alimenti, perché questa porzione fa già abbondantemente pasto a sé.
Quello che manca, in questo caso, è una precisazione: non si sta indicando la porzione suggerita, si prende invece atto della porzione comunemente consumata.
D.: Quali sono le ricadute di questa modificazione progressiva?R.: L’alterata percezione di porzione media fa sì che si modifichi un secondo aspetto cruciale nel rapporto col cibo: la consapevolezza della quantità di alimento consumato, che condiziona il comportamento alimentare complessivo.
Se una porzione corretta viene percepita come poco soddisfacente, infatti, il soggetto verrà stimolato ad aggiungere altri alimenti. E viceversa.
Torniamo alla pizza margherita da 350 grammi: se viene percepita come grande, quale è, sarà più facile rifiutare l’aggiunta di farcitura (prosciutto e mozzarella di bufala, per esempio) e l’offerta di un dolce che, tutti insieme, comporterebbero un carico calorico davvero eccessivo per un solo pasto.
Anche la ricerca nutrizionale, del resto, conferma non soltanto che il concetto di porzione media nella popolazione è del tutto eterogeneo, ma anche che la consapevolezza delle quantità di consumo è cruciale nell’orientare il comportamento alimentare.
Lo dimostra in modo definitivo una situazione estrema, com’è quella delle persone che soffrono di amnesia retrograda, incapaci di memorizzare quanto è accaduto nelle ore immediatamente precedenti. Alcuni studi hanno dimostrato come il consumo di due pranzi identici, a distanza di due-tre ore (esempio: alle 13 e alle 16), non limiti in queste persone l’assunzione di cibo nelle ore serali. Vale a dire: l’assenza di consapevolezza del comportamento alimentare nel corso della giornata fa sì che venga consumata una cena completa, nonostante un’assunzione più che abbondante di calorie nelle ore precedenti.
D.: Quale ruolo potrebbero avere le linee guida o le indicazioni nutrizionali nel processo di assunzione di consapevolezza?R.: Le linee guida dovrebbero aiutare a costruire una consapevolezza alimentare corretta. Certo, la sola presa d’atto delle indicazioni non basta. Occorre mettere in moto l’elaborazione cognitiva (tratto distintivo dell’uomo, rispetto al resto del mondo animale), per fare propria la percezione delle quantità corrette di cibo, che porta alla consapevolezza dei consumi.
Occorre anche avere una guida perché, lasciato a sé stesso, l’essere umano fa fatica a porsi un limite. Se la consapevolezza alimentare fosse un processo spontaneo, infatti, non ci sarebbe bisogno degli specialisti dell’alimentazione. E neppure esisterebbero le proposte alimentari improbabili, ciclicamente fiorenti prima della “prova costume”.
Nelle intenzioni, quindi, le linee guida dovrebbero rappresentare il riferimento di partenza.
Ma il processo non è sempre così lineare. Le linee guida, per esempio, indicano l’opportunità di consumare quotidianamente 375 mL tra latte e yogurt. Ma i LARN considerano “porzione” di latte un bicchiere da 125 mL: una quantità poco aderente alla realtà, perché un bicchiere da acqua corrisponde a 150-200 mL e una tazza media ne contiene circa 200-250 mL.
I 125 mL, invece, corrispondono al contenuto del vasetto di yogurt. Questo è un esempio di come possa generarsi confusione: la porzione standard si basa sulla dimensione di un packaging molto diffuso, quello per lo yogurt, che è tuttavia ben diverso dalla capacità della tazza in cui comunemente si consuma il latte.
Ancora: la porzione di verdure a foglia, secondo i LARN, è di 80 g, ma il consumo medio per persona è decisamente inferiore. Gli 80 g sono quindi un auspicio e un incoraggiamento al consumo; anche se il metodo con cui viene identificata la porzione è ben diverso dal precedente, per il consumatore la perplessità resta.
Un uovo è considerato porzione standard, ma dovrebbe essere piuttosto indicato come unità di consumo, perché con un solo uovo si assumono soltanto 6-7 g di proteine, poche per un secondo piatto, considerando che una porzione di carne, o di pesce, ne fornisce quasi il triplo (20 g).
Consideriamo la pasta: la porzione suggerita è pari a 80 grammi e su questa quantità torna la maggior parte delle diete ipocaloriche. Comunemente, però, se ne consuma una porzione un poco maggiore, a casa e ancor più al ristorante.
Ci si potrebbe chiedere: come mai per la pasta è stata suggerita una porzione che veicola meno della metà delle calorie della porzione di pizza, meno sale e meno grassi saturi, oltre a fornire carboidrati a minore indice glicemico?
La risposta sta probabilmente in abitudini di consumi (oggi in larga parte superate) che prevedevano primo e secondo piatto.
In questo caso andrebbero meglio definiti i contesti di consumo, adeguando le indicazioni di porzione media, in modo da renderli più omogenei. Si tratta però dell’ulteriore dimostrazione di quanto una corretta percezione delle porzioni faciliti l’adesione alle linee guida.
D.: Quale può essere la via per risolvere questo scollamento tra realtà e indicazioni/auspici di consumo?R.: Si dovrebbe trovare un metodo omogeneo di elaborazione delle indicazioni nutrizionali e della loro successiva comunicazione. Ne trarrebbero vantaggio il professionista della nutrizione, che potrebbe trasmettere più agevolmente il concetto di porzione media, ma anche il consumatore nello sforzo di fare propri questi messaggi.
Mi spiego meglio con un riferimento quotidiano. La porzione di vino indicata dalle linee guida è pari a 125 mL, ma la percezione della quantità che corrisponde a 125 mL non è così semplice come sembra.
Se ci riferiamo a un bicchiere da cucina medio, 125 mL corrispondono a poco più della metà; sono solo i bicchieri da degustazione ad avere l’indicazione incisa sul vetro e corrispondente a 125 ml. Com’è noto, le linee guida indicano il limite di una sola porzione di vino al giorno per la donna e due per l’uomo.
Ma non è raro che, a domanda su quale sia il consumo medio quotidiano di vino, alcune signore rispondano con “bevo poco, non più di mezzo bicchiere a pasto”; quantità che, rapportata ai comuni bicchieri da cucina, diventa quasi il doppio del limite suggerito.
È sempre più necessario, perciò, aiutare le persone a capire di che cosa si sta parlando e a trasferirlo alla pratica quotidiana. È un lavoro complesso: è necessario uno sforzo comune, tra istituzioni e specialisti della nutrizione, per identificare una strategia condivisa che, partendo dalla definizione delle porzioni standard, si concluda con un efficace trasferimento delle indicazioni alla popolazione.
Negli Stati Uniti, per esempio, sono stati allestiti atlanti in cui la porzione corretta dell’alimento non è solo indicata come quantità, ma è anche resa in scala 1:1 e in prospettiva tridimensionale, immediatamente percepita da qualunque consumatore. Un tipo di approccio percettivo a cui fa riferimento, peraltro, anche la dietetica per volumi.
Comunque la si veda, si tratterebbe di un traguardo fondamentale, anche per rintuzzare il proliferare delle diete “fai-da-te”, il cui successo poggia proprio sulla disarmante accessibilità del messaggio comunicato.
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Gli asparagi
Il termine asparago risale al persiano “asparag”, cioè germoglio. La pianta è una Liliacea, apparentata quindi con cipolle, aglio, porri. Gli asparagi coltivati, appartenenti alla specie Asparagus officinalis, sono diffusi in tutto il mondo. Da citare alcune varietà pregiate italiane: l’asparago verde di Altedo (Bologna), l’asparago violetto (Albenga) ricco di antociani, l’asparago rosa di Mezzago (Monza) e quello bianco. Al Centro-Sud troviamo l’Asparagus acutifolius, selvatico, e la varietà violetta campana. Infine, popolare è l’asparagina, che identifica i germogli degli asparagi selvatici.
Che cosa contengono
Gli asparagi forniscono fibre insolubili e solubili: entrambe concorrono al mantenimento della funzionalità intestinale e alla proliferazione intestinale di Bifidobatteri e Lattobacilli. Folati e vitamina C favoriscono invece l’assorbimento del ferro. Buono è anche il contenuto di antiossidanti: vitamine C ed E, glutatione, quercetina, kampferolo e, nelle varietà violette e rosa, antociani; ottimo è inoltre l’apporto di potassio, calcio e fosforo. Da segnalare anche la rutina, nota per la difesa della parete capillare. Versatili in cucina, ma poco calorici, gli asparagi sono un’ottima risorsa anche per un’alimentazione equilibrata e gustosa.

Che cosa bisogna sapere
Gli asparagi, in quanto Liliacee, non possono essere consumati da chi non tollera aglio, cipolla e porri. Il contenuto di purine è medio (50-100 mg/100 g) e sconsiglia il consumo di queste verdure nelle persone che soffrono di iperuricemia, di calcolosi renale da acido urico, o di gotta. L’odore pungente assunto dalle urine dopo il consumo di asparagi è il prodotto del metabolismo di un aminoacido, l’asparagina, che produce N-metilurea e composti solforati.
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