Nella Regione Europea, la prima causa alimentare di mortalità cardiovascolare prematura (prima dei 70 anni) è un consumo di cereali integrali insufficiente, inferiore a quanto raccomandato per il mantenimento di benessere e salute. Uniche eccezioni, in un panorama piuttosto uniforme, sono Svezia e Norvegia, nazioni in cui il consumo di cereali non raffinati è infatti una tradizione consolidata.
I dati, raccolti in 51 Paesi dal gruppo di studio Global Burden of Disease (GBD) e pubblicati sull’European Journal of Epidemiology nel gennaio di quest’anno, scaturiscono dall’analisi sistematica delle informazioni raccolte in 26 anni di osservazioni (1990-2016).
In buona sostanza, ammoniscono i ricercatori, ottimizzando gli apporti nutrizionali nel loro complesso (quindi non solo quello dei cereali integrali) sarebbe stato possibile prevenire, nel solo 2016, un quinto delle morti premature per cause cardiovascolari.
Tornando al consumo inadeguato di cereali integrali, stupisce inoltre che proprio i Paesi del bacino del Mediterraneo, dall’Italia alla Grecia, da Israele a Cipro, mostrino una scarsa adesione a uno dei principi fondamentali della nutrizione bilanciata e varia, su cui si basa la Dieta Mediterranea. Fa eccezione la Spagna, in cui la prima causa alimentare di mortalità cardiovascolare prematura è la disaffezione al consumo di semi e frutta a guscio; il consumo insufficiente di cereali integrali segue però a ruota, in seconda posizione.
All’inizio di aprile, su The Lancet, ecco una nuova conferma, sempre a firma del GBD: questa volta l’analisi è stata ampliata a 195 paesi e l’osservazione estesa fino al 2017, valutando anche la disabilità, calcolata in DALYs (Disability-Adjusted Life-Years, o numero di anni persi a causa della malattia).
Includere i Paesi degli altri Continenti ha però modificato di poco la classifica globale dei fattori di rischio alimentari: l’inadeguato consumo di cereali integrali rimane ben piazzato al terzo posto, preceduto da un apporto non sufficiente di latte e derivati e dall’assunzione troppo scarsa di frutta oleaginosa e semi. Ad associare malattia, disabilità e mortalità con la nutrizione è perciò un apporto carente di gruppi alimentari ampiamente riconosciuti come positivi (tra questi i cereali integrali), mentre l’eccessivo consumo di altri alimenti (un esempio per tutti, le carni lavorate) ha un ruolo marginale.
I dati del GBD per l’area europea
Il gruppo di studio GBD per l’area europea (vale a dire Europa Centrale, Europa dell’Est, Europa Occidentale e Asia Centrale) ha analizzato il rapporto tra assunzione dei diversi gruppi di alimenti/nutrienti e rischio di mortalità cardiovascolare, suddividendo per la prima volta i dati per sesso, per età e per nazione.
Sono 12 i fattori legati all’alimentazione che il GBD definisce rilevanti per il rischio di mortalità cardiovascolare: da un lato l’inadeguato apporto di fibre, frutta, legumi, frutta oleaginosa e semi, grassi polinsaturi totali, omega-3 assunti con il pesce, vegetali e cereali integrali; dall’altro, l’assunzione di livelli eccessivamente elevati di carni lavorate, sodio, bevande zuccherate e grassi trans.
Dopo 26 anni di osservazioni in tutta l’area, a cinque di questi fattori i ricercatori hanno attribuito un carico percentuale di rischio cardiovascolare prematuro superiore al 10%.
Primo è risultato appunto il consumo inadeguato di cereali integrali, che pesa per il 20,4% nel calcolo del rischio di mortalità cardiovascolare precoce associabile alla dieta.
Seguono, con il 16,2%, lo scarso apporto di frutta oleaginosa e di semi, poi l’insufficiente consumo di frutta fresca (12,5%), mentre quarto è un eccessivo apporto di sodio (12,0%); il consumo inadeguato di omega-3 assunti con il pesce supera di poco il 10% e si classifica quinto. Trascurabile appare, invece, la responsabilità dell’eccessivo apporto di carni lavorate, bevande zuccherate e acidi grassi trans (Tabella).
A confronto con il 1990, il GBD ha rilevato nel 2016 una contrazione, in numeri assoluti, della mortalità per tutte le cause. Nello stesso arco temporale, però, sono aumentati i decessi cardiovascolari prematuri da nutrizione carente: un quadro che pone non pochi interrogativi , se si considera che proprio nell’area europea sono presenti non solo i principali Paesi sviluppati, ma anche nazioni che hanno raggiunto (o stanno raggiungendo) accettabili livelli di benessere.
Anche considerando i soli dati italiani, va detto che la mortalità cardiovascolare da alimentazione inadeguata (considerando tutti i 12 fattori) è diminuita progressivamente, ma solo fino al 2010. La tendenza positiva si è però interrotta negli anni successivi e la brusca inversione è emersa nel 2016, in cui si sono registrati 9.628 decessi in più (96.977 in totale). Non solo: dal 1990 in poi, l’Italia ha sempre mantenuto il primato dell’insufficiente consumo di cereali integrali, inteso come fattore di rischio alimentare prevalente.
Conferma attuale di quanto l’Italia faccia parte, a pieno titolo, dei Paesi meno virtuosi sotto il profilo nutrizionale sono i dati raccolti dall’INHES (Italian Nutrition & Health Survey). Lo studio è stato condotto tra il 2010 e il 2013 in un campione rappresentativo della popolazione italiana oltre i 5 anni: in totale 8.421 adulti dai 19 anni in poi e 561 soggetti tra i 5 e i 19 anni. L’analisi più recente dell’INHES ha riguardato proprio il consumo di cereali integrali.

Apporti medi ottimali di cereali integrali secondo il GBD
Nel rapporto GBD l’inadeguatezza degli apporti nutrizionali è stata valutata per ogni gruppo di alimenti, utilizzando il TMREL (Theoretical Exposure Risk Minimum Level), cioè il livello di assunzione medio associato con il minimo rischio di mortalità (in questo studio cardiovascolare). Nel caso dei cereali integrali (cereali per la prima colazione, biscotti, pane, riso, pasta, tortillas, muffn, pancakes, cous-cous e così via) tale livello di assunzione è risultato piuttosto alto, in media pari a 100-150 grammi.
Le premesse e gli scopi dell’INHES
Un paio di premesse sono d’obbligo. Gli autori dell’INHES ricordano che, secondo il modello mediterraneo, “ogni pasto principale dovrebbe fornire 1-2 porzioni di cereali (preferibilmente integrali), tra pasta, pane, riso, cous-cous e altri”.
In Italia, però, le linee guida non indicano in modo esplicito la quantità di cereali integrali che andrebbe consumata ogni giorno, consigliando invece un apporto regolare di cereali, preferibilmente di prodotti integrali.
In area europea, si possono citare le linee guida danesi, che raccomandano per esempio un consumo pari a 75 g per un apporto calorico complessivo di 2.388 kcal. Per un confronto, negli Stati Uniti le raccomandazioni sono distinte per fascia d’età: almeno 85 g/die per l’età adulta (dai 18 anni) e 42 g/die per bambini e adolescenti.
Manca comunque ancora una definizione di “cereale integrale” accettata a livello internazionale: la proposta dello Health Grain Forum (consorzio senza fini di lucro, a cui aderiscono rappresentanti internazionali del mondo accademico e industriale) è di considerare “integrali” tutti i prodotti in cui la quota di cereale integrale supera quella raffinata ed è comunque maggiore del 30% del complesso degli ingredienti.
E veniamo ai dati INHES. Lo scopo della ricerca era duplice: aggiornare i dati di consumo generale dei diversi gruppi di alimenti, a quasi 10 anni dall’indagine INRAN-SCAI 2005-06, ma anche inquadrare i fattori (demografici, socioeconomici, psicosociali e comportamentali) che più incidono sulle scelte alimentari dichiarate. È un approfondimento indispensabile per disegnare strategie efficaci di educazione alimentare diretta alla popolazione.
A proposito di cereali integrali
Nello studio INHES, il consumo di cereali integrali è stato quantificato considerando l’apporto (totale e suddiviso) di cinque gruppi di alimenti: pane, pasta, cereali per la prima colazione, biscotti/crackers/grissini, zuppe. In base alla frequenza di assunzione di cereali integrali, i soggetti allo studio sono stati suddivisi tra: non consumatori, consumatori occasionali (meno di una volta alla settimana) e consumatori regolari (una o più volte alla settimana).
I consumi sono stati correlati con le ragioni della scelta di un prodotto integrale rispetto all’equivalente raffinato, con il tipo di pasto in cui l’alimento è stato inserito e con il contesto di consumo: domestico o fuori casa, in compagnia o davanti alla TV/PC.
Sono stati inoltre considerati il grado di scolarizzazione e la mansione lavorativa mentre, sul versante psicosociale, è stata chiesta un’autovalutazione dello stato di salute e del livello di stress (lavorativo e familiare). L’adesione, o meno, a una regolare attività fisica e il rapporto peso/altezza (BMI) hanno completato la raccolta dei dati.
Emerge un quadro variegato
Nella fascia d’età adulta, poco più di un quarto degli intervistati (27,2%) dichiara un consumo regolare (una o più volte alla settimana) di cereali integrali. Prevalgono le donne, di età superiore ai 50 anni, residenti nel Nord Italia e con una scolarizzazione elevata.
Chi consuma prodotti integrali svolge in maggioranza mansioni lavorative non manuali, è single o separato/divorziato, non fumatore, con un’attività fisica regolare e un BMI nella norma. Va detto però che i consumatori occasionali e i non-consumatori di cereali integrali mostrano una maggiore adesione alla Dieta Mediterranea nel suo complesso.
Biscotti e pane risultano essere le fonti di cereali integrali preferite (27,4% e 53,3% rispettivamente), seguite a distanza dalla pasta (13,1%), mentre i cereali per la prima colazione sono scelti solo dal 4,8% del campione; le zuppe sono le meno popolari (1,3%). Comprensibilmente, si evidenzia un rapporto inverso tra assunzione di cereali integrali e consumo della prima colazione fuori casa.
Anche nella fascia pediatrica e adolescenziale, pane e biscotti sono la fonte principale di cereali integrali (42,3% e 20,2% rispettivamente); guadagnano invece quota, rispetto agli adulti, i cereali per la prima colazione (15,7%), la pasta (15,8%) e le zuppe (6,0%).
Senza sorprese emerge un maggior consumo da parte delle ragazze rispetto ai coetanei; tra i più giovani gli apporti diminuiscono all’aumentare del numero di ore trascorse quotidianamente davanti al PC. Complessivamente, il consumo regolare di cereali integrali (una o più volte alla settimana) in questa fascia d’età è limitato al 21,9% della popolazione.
Le ragioni principali della scelta di un prodotto integrale sono la convinzione che sia più salutare (47,7%), o più naturale rispetto al prodotto raffinato (26,2%). Entrambe le risposte presuppongono una decisione formulata in base a informazioni mirate.
Sul versante opposto, infatti, il 45,3% dei non consumatori dichiara di non conoscere le proprietà dei cereali integrali; meno inattesa la quota di non consumatori (il 38,8%) che non apprezza il gusto del cereale integrale, o quel 12,9% che non consuma alimenti integrali, come pasta e zuppe, lamentando i lunghi tempi di cottura.
Il confronto con INRAN-SCAI
Il quadro dei consumi di cereali integrali in Italia non è molto cambiato, rispetto a quanto rilevato dall’indagine INRAN-SCAI 2005-06.
Poco più di un quarto (26,9%) tra bambini, adolescenti e adulti mette oggi in tavola regolarmente (una o più volte a settimana) un prodotto a base di cere.ali integrali, con un aumento di circa tre punti rispetto al 23% dell’indagine INRAN-SCAI 2005-06.
Semmai, all’interno di un panorama che conferma la scarsa preferenza per questi prodotti, si registrano minimi spostamenti di consumo. Resta per esempio invariata la scelta prevalente del pane come alimento integrale più consumato. Rispetto ai dati del 2005-2006, invece, risulta dimezzato tra i bambini il consumo di cereali integrali per la prima colazione: dal 32% al 15,7%. Tra gli adulti, invece, cresce il consumo di pasta integrale, dal 2% al 13,1%.
Da ribadire, infine, è la contraddizione tra la mediterraneità ancora attribuita all’alimentazione attuale della Penisola e la trascurabile presenza dei cereali integrali nei menu italiani.
Qualche spunto positivo per il futuro emerge invece dalle motivazioni della scelta di questi alimenti. Com’è stato già detto, infatti, per quasi la metà del campione i cereali integrali apportano benefici alla salute. Un dato che, secondo gli Autori, sostiene l’opportunità di ripetere le campagne (sia istituzionali e sia finanziate dall’industria alimentare) di promozione del consumo di cereali integrali, anche a fronte del fatto che, come detto, la maggior parte dei non consumatori indica la scarsa conoscenza delle qualità nutrizionali dei cereali integrali come motivazione della mancata preferenza.
L’informazione nutrizionale sui benefici dei cereali integrali, inoltre, è tanto più diffusa quanto maggiore è il grado di scolarizzazione.
Non solo. Tra apporto di cereali integrali e stile di vita c’è un rapporto bidirezionale: il consumo regolare di cereali integrali segnala uno stile di vita salutare, ma è anche uno dei fattori che lo sostengono nel tempo.
Secondo gli Autori dell’INHES (lo studio è scaturito dalla collaborazione tra il Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione, IRCCS Neuromed di Pozzilli-Isernia, il centro di Ricerca EPIMED dell’Università dell’Insubria a Varese e la Clinica Mediterranea di Napoli) per incoraggiare il consumo di cereali integrali è necessario mettere in campo iniziative diversificate: le campagne di informazione dirette alla popolazione dovrebbero andare in parallelo con l’aumento della quota di ingrediente integrale nei prodotti di largo consumo, fino alla certificazione, con un logo opportuno, dei prodotti in cui il contenuto di cereali integrali sia ritenuto congruo.
In conclusione, si può affermare che i risultati di un’indagine nazionale come INHES e i dati di un ampio studio internazionale come il Global Burden of Disease convergono sulla necessità di promuovere il consumo di cereali integrali in tutta l’area europea (e in Italia), con il sostegno di un programma educazionale alla corretta alimentazione.
Entrambi gli studi rafforzano inoltre il concetto di “nutrizione positiva”, che si traduce nell’incentivo al consumo di alimenti a dimostrata valenza protettiva.
Si tratta di un messaggio più accettabile ed efficace rispetto a quello, finora prevalente, di “nutrizione punitiva”, diretto soltanto a ridurre l’apporto di determinati alimenti o nutrienti, spesso in assenza di proposte alternative gradevoli al gusto e nutrizionalmente più vantaggiose.
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