Tra soli 12 anni, secondo le stime 2015 del Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’ONU, 1 miliardo e 400 milioni di individui nel mondo avranno 60 anni o più: il principale fattore di rischio di demenze vascolari e Alzheimer, di fatto non modificabile, farà pesare il suo ruolo, proiettando a cifre insostenibili le stime di crescita per queste malattie (+ 45%) e per i costi relativi indotti (fino a 1,7 miliardi di euro all’anno).
Che fare? Già nel 2012 l’OMS aveva chiarito, nel suo documento “Dementia: a public health priority”, i molti legami tra rischio di demenze (a iniziare dall’Alzheimer) e stili di vita, inquadrati poi in sette fattori modificabili: basso livello di istruzione, ipertensione della mezza età, obesità della mezza età, diabete, sedentarietà, fumo, depressione.
Non c’è dubbio che la nutrizione entri di diritto nella prevenzione e nella cura di tre tra questi fattori (ipertensione, obesità, diabete), anche perché la centralità della corretta alimentazione nel promuovere la salute generale nel tempo è accertata.
Inoltre, guardando alle sole malattie della cognitività, la farmacologia stenta a trovare soluzioni. Ecco perché la risorsa più promettente poggia proprio sui pilastri preventivi che già funzionano in ambito cardiovascolare e oncologico: alimentazione, attività fisica e abbandono del fumo; aggiungendo, proprio per la specificità d’organo, l’allenamento cognitivo.
Emanuele Cereda, Medico Ricercatore, UOC Dietetica e Nutrizione Clinica, Fondazione IRCCS, Policlinico San Matteo di Pavia, si occupa da tempo del legame tra nutrizione e cervello. Con lui, AP&B approfondisce questo tema, complesso e cruciale.
DOMANDA: Quali premesse (epidemiologiche, biochimiche, cliniche) sono necessarie prima di approfondire i legami emergenti tra abitudini alimentari e protezione delle funzioni cognitive?RISPOSTA: Allo stato attuale ci sono evidenze note, accanto ad altre in consolidamento. Il fattore demografico è il primo: non tutte le demenze sono imputabili all’età, è vero, ma è indubbio che il maggior numero di casi si sviluppa nei soggetti più anziani. Un altro fattore non modificabile, nel caso della demenza di Alzheimer, è la familiarità per la malattia. Per questo è indispensabile ridurre l’impatto dei fattori di rischio modificabili. Già negli anni ‘20 del secolo scorso, per esempio, era stata dimostrata l’associazione tra diabete e alterazioni delle performance cognitive; oggi si sa che soffrire di diabete di tipo 2 aumenta il rischio di demenza di Alzheimer fino al 46%1. Inoltre: è ormai dimostrato che i chili di troppo in età adulta, se prevalenti a livello del girovita (grasso viscerale), sono associati ad aumento del rischio di demenze nella terza e quarta età2,3. Proprio l’aumento del grasso viscerale3 promuove un quadro metabolico e clinico ben diverso da quello indotto dall’eccesso di grasso sottocutaneo distribuito in modo più uniforme. Indipendentemente dal BMI, infatti, la massa grassa viscerale si associa ad alterazioni del profilo lipidico e glucidico, ad aumento dei livelli di molecole pro-infiammatorie (proteina C reattiva, TNF-alfa e Interleuchina-6), a riduzione dell’elasticità delle pareti arteriose (che condiziona l’insorgenza di ipertensione). Tutti questi fattori favoriscono le malattie vascolari centrali (coronaropatia, cerebrovasculopatie) e periferiche (arteriopatia obliterante), che a loro volta accelerano il declino cognitivo. In un articolo recente4 si paragonano gli eventi della vita e le abitudini personali al passaggio della sabbia in una clessidra: più stimoli negativi accumuliamo, più veloce sarà lo scorrere della sabbia, cioè l’invecchiamento precoce di organi e apparati, cervello compreso. Per questo si è giunti a coniare il termine “infiammazione sistemica”, che illustra bene il danno diffuso, sommatorio e insidioso imposto all’organismo dagli stress fisici e psicologici subiti fin dalla vita prenatale, per esposizione all’ambiente e per le scelte di stile di vita.
D.: Partendo da queste considerazioni, quali sono stati i principali filoni di ricerca sul rapporto tra alimentazione e prevenzione/rallentamento del declino cognitivo?R.: Il legame tra scelte nutrizionali e protezione delle funzioni cognitive è dimostrato, ma per ora indiretto. Conosciamo bene il ruolo dell’alimentazione nel determinare il rischio di malattie cardiovascolari e metaboliche e si sa che proprio queste malattie si riverberano sulla salute del cervello. Già una decina d’anni fa5 era nota l’associazione tra Dieta Mediterranea (DM), come schema alimentare complessivo, e protezione delle funzioni cognitive. La DM nel suo insieme aveva già dimostrato gli effetti favorevoli sul profilo lipoproteico e sul metabolismo glucidico, accanto alla capacità di proteggere l’elasticità delle pareti vasali e di apportare, tra le altre, sostanze in grado di sostenere le difese antiossidanti. Ultimo, ma non per importanza, va citato l’elemento frugalità, criterio fondante della DM e primo argine all’aumento ponderale. Alcune recenti revisioni della letteratura6,9 ripercorrono una per una le proprietà degli alimenti caratterizzanti della DM, ma precisano anche che gli effetti positivi vengono dal consumo calibrato e armonico di tutti i cibi che ne fanno parte, senza focalizzare un solo gruppo alimentare o un solo alimento. Vengono citati i benefici di frutta oleaginosa, altri alimenti vegetali e olio extravergine di oliva (EVOO): sono i principali fornitori di fitocomposti antiossidanti, in grado di ridurre lo stress ossidativo e la perossidazione dei grassi, che contribuiscono all’infiammazione sistemica già citata, accelerando anche il declino cognitivo. Il consumo regolare (almeno 2 volte alla settimana) di pesce grasso apporta gli omega-3 (DHA + EPA): gli omega-3, insieme con EVOO e fibre, riducono la sintesi delle già citate molecole pro-infiammatorie (Proteina C reattiva, Interleuchina-6,TNF-alfa). Un apporto regolare di omega-3, inoltre, contrasta anche il rischio di insufficienza cardiaca e di fibrillazione atriale, quindi anche il rischio di ictus. Vorrei ricordare che, per quanto riguarda il solo DHA, EFSA (Autorità europea per la sicurezza degli alimenti) ha accettato il seguente claim7: «Il DHA contribuisce al mantenimento della normale funzione cerebrale– Questa indicazione può essere impiegata solo per un alimento che contiene almeno 40 mg di DHA per 100 g e per 100 kcal. L’indicazione va accompagnata dall’informazione al consumatore che l’effetto benefico si ottiene con l’assunzione giornaliera di 250 mg di DHA». Sul versante proteico, la prima risorsa proteica per tutte le popolazioni mediterranee, vicine o lontane dalle coste, erano i legumi; e chi abitava all’interno contava, più che sulla carne, su latte, latti fermentati e formaggi freschi (ricotte soprattutto), consumati sempre con parsimonia. Oggi sappiamo che i latticini parzialmente scremati e l’assunzione quotidiana di yogurt contribuiscono al controllo pressorio. Nella DM delle origini, infine, era incluso l’apporto di vino giovane, limitato ai pasti e sempre in quantità controllate. Senza bisogno di citare il paradosso francese (l’incidenza di malattie vascolari non va di pari passo con l’alto consumo di formaggi grassi, probabilmente proprio per la protezione dei polifenoli forniti dai loro vini giovani), oggi sappiamo che il consumo consapevole di alcolici (da lieve, pari a meno di 7 drink/settimana a moderato, 7-13 drink/settimana) è associato a riduzione del rischio di ictus ischemico, di TIA silenti, di patologie a carico della sostanza bianca, quindi di tutti gli eventi cerebrovascolari che accelerano il declino cognitivo e aumentano il rischio di demenze. In attesa di nuovi dati, l’indicazione a riflettere sulle scelte alimentari personali, rendendole più aderenti alle indicazioni, mi sembra ovvia.
D.: La Dieta Mediterranea, però, non è il solo pattern nutrizionale corretto ad aver ricevuto l’approvazione a livello internazionale: quali sono i dati relativi a queste ulteriori abitudini alimentari? R.: Anche in questo caso, abbiamo riscontri indiretti, ma consistenti. Citerei la recentissima revisione sistematica sul rapporto tra nutrizione e ictus, firmata dal gruppo di lavoro SINU8, da cui emerge la forte raccomandazione a favore non solo della DM, ma anche della proposta DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension). È dimostrato che DASH tiene sotto controllo il principale fattore di rischio per l’ictus ischemico (l’ipertensione) e che mostra una tendenza protettiva persino nei confronti dell’ictus emorragico, notoriamente più difficile da prevenire, perché la sua fisiopatologia è decisamente più complessa. Sugli altri schemi alimentari “sani” (tra cui Nordic Food Index e Okinawan Diet) la review conferma che hanno un effetto protettivo nei confronti della salute generale. Nota bene: in tutti questi schemi prevalgono gli alimenti vegetali caratteristici di ciascuna area geografica; gli alimenti di origine animale non sono esclusi, purchè l’apporto sia limitato; si conferma infine la necessità di un consumo consapevole di alcol. Tutti questi regimi sono declinati sempre nel segno della frugalità, della varietà e della scelta di metodi di cottura a limitato uso di grassi, con ridotta formazione di composti potenzialmente lesivi (vapore, bollitura, stufatura). Le popolazioni che aderiscono di più a questi pattern dietetici mostrano una migliore sopravvivenza, in quantità e in qualità, compreso il mantenimento nel tempo delle funzionalità cognitive. Da citare infine c’è l’approccio alimentare MIND (Mediterranean-DASH Intervention for Neurodegenerative Delay), l’unico specificamente mirato sul declino cognitivo: combinando alcuni specifici elementi della DM e di DASH9, focalizza l’apporto di frutti di bosco e verdure a foglia verde scuro come fonte naturale di vitamina K, folati, luteina, licopene, beta-criptoxantina, alfa e beta carotene. Una rigorosa adesione alla MIND, che metta in tavola una o due porzioni al giorno di vegetali a foglia verde scuro, sembra rallentare in modo significativo il declino cognitivo, a confronto con un consumo sporadico o assente. Va detto che anche nel gruppo di soggetti con una moderata adesione alla MIND emerge una certa protezione dal declino cognitivo, sebbene meno significativa.
D.: Ci sono elementi a favore della supplementazione con singoli nutrienti, o con complessi di nutrienti?R.: Se ci atteniamo all’assunto di partenza, vale a dire la protezione delle funzioni cognitive in soggetti sani, senza segni e sintomi di malattia, la ricerca ci consegna un quadro in piena evoluzione4, su cui è indispensabile lavorare. Ovvero: per chi è sano, il miglior intervento preventivo, per ora, sta nel rispetto di quanto abbiamo già affermato. Abbiamo invece qualche elemento positivo in più, sempre e solo in ottica preventiva, nel caso di una popolazione selezionata, cioè nei soggetti in cui è presente un alto rischio di malattia. Nel confronto con una preparazione placebo, una combinazione bilanciata di nutrienti specifici (omega-3, vitamine, fosfolipidi, colina, selenio e uridina monofosfato), infatti, somministrata a persone con segni prodromici di Alzheimer, prima cioè che la malattia si evidenzi10, ha dimostrato di rallentare la progressione di alcuni segni (come l’atrofia dell’ippocampo) e di migliorare i punteggi di valutazione dello stato cognitivo. Sottolineo ancora una volta che il vantaggio si evidenzia soltanto se l’intervento è precoce, prima che la malattia dia segnali conclamati.
D.: Ci sono studi che hanno valutato un approccio multimodale: alimentazione corretta, più attività fisica, più allenamento cognitivo?R.: Inizierei citando la ricerca FINGER11 (FINnish GERiatric intervention study to prevent cognitive impairment and disability) del 2015, in cui una popolazione tra i 60 e i 77 anni, con performance cognitive nella media, o appena inferiori, e un rischio medio per cardiovasculopatie e Alzheimer (punteggio ≥6 su 15, valutato con il CAIDE Score) ha seguito per 24 mesi due protocolli: o un intervento attivo multimodale(dieta, esercizio fisico, monitoraggio cardiovascolare, training cognitivo), o consigli generali di salute. Questo studio è il primo a essere stato condotto su una popolazione anziana, selezionata per il rischio di rapido declino cognitivo, ma senza segni e sintomi di malattia; ha dimostrato che seguire con costanza nel tempo il complesso degli interventi mirati sui maggiori aspetti della salute generale e cognitiva ottiene risultati soddisfacenti e comporta costi minimi. Nel gruppo seguito con l’approccio multimodale, infatti, il rischio di declino cognitivo si è ridotto in modo significativo rispetto ai controlli. Anzi, in alcuni soggetti i punteggi delle diverse performance sono addirittura migliorati. Più recentemente, uno studio multicentrico francese12 ha paragonato per tre anni, su donne e uomini dai 70 anni in su ancora sani, 4 interventi: 1) placebo (gruppo di riferimento); 2) intervento multimodale (alimentazione corretta più attività fisica più allenamento cognitivo), associato a supplementazione quotidiana di omega-3 (800 mg/die di DHA e 225 mg/die di EPA); 3) intervento multimodale più capsule placebo; 4) sola supplementazione di omega-3. Dopo tre anni, i punteggi cognitivi dei tre gruppi che avevano seguito l’intervento multimodale (da solo, o associato a omega-3) e o che avevano assunto soltanto DHA + EPA sono stati migliori rispetto al gruppo placebo. Attenzione, però: anche nel gruppo placebo, la cognitività di chi aveva in partenza livelli più alti di DHA + EPA non è stata penalizzata, mentre nei soggetti con bassi livelli basali dei due omega-3 le performance sono declinate. In parole semplici: si conferma la necessità di un’alimentazione corretta, che includa sempre adeguati apporti di questi polinsaturi. Questi esempi ci dicono che siamo di fronte a un filone robusto di ricerca, sul quale c’è ampio margine di manovra, pur ricordando che il complesso della dieta ha un ruolo preminente rispetto a quello del singolo nutriente.
D.: Indicazioni pratiche e sviluppi futuri: che cosa si può dire?R.: L’articolo pubblicato da Ageing Research Reviews4 sintetizza bene il presente e il futuro. Per il presente c’è piena conferma al binomio tra nutrizione adeguata e life-style corretto per sostenere la salute dell’individuo. Il concetto di “salute” include ovviamente tutti gli organi, cervello compreso. Prima ci si adegua, migliori saranno i risultati nel tempo. Per il futuro, il discorso si fa più complesso. Cito per sommi capi gli aspetti su cui si sta lavorando. Dobbiamo chiarire quali sono i biomarker migliori per valutare, a livello centrale (sistema nervoso centrale) e nei tessuti periferici, l’impatto dei fattori stressogeni (fisici e psicologici) che promuovono l’infiammazione sistemica. Occorre sviluppare metodi di valutazione delle funzioni cognitive standardizzati e accettati da tutti. Soltanto così i risultati delle ricerche future potranno essere interpretati in modo uniforme a livello internazionale. È indispensabile infine individuare i bersagli davvero utili per la prevenzione, vale a dire: quali sono gli interventi positivi e sinergici? Quali sono invece quelli che, singolarmente ottimali, potrebbero non esserlo se adottati insieme? È obbligatorio a questo punto citare il contributo che verrà dall’approfondimento sul dialogo tra intestino e cervello (brain-gut axis), mediato dai ceppi batterici che, nel microbiota intestinale, proteggono integrità e funzionalità delle mucose intestinali: quali sono? Come cambiano da individuo a individuo? Come possiamo stimolarne la proliferazione? Una dieta adeguata permette di selezionare e “coltivare” i batteri benefici e di sostenere l’interazione positiva degli stessi con il nostro sistema immunitario (in gran parte localizzato nell’intestino). In questo modo contribuisce a mantenere un basso livello di infiammazione locale e sistemica e quindi a ridurre anche il livello di neuro-infiammazione. In conclusione: la complessità delle ipotesi di lavoro sul rapporto tra nutrizione e cervello è davvero notevole. In attesa di risultati mirati, che sicuramente verranno, abbiamo una certezza: anche il cervello si può difendere bene, scegliendo e seguendo lo stile alimentare e di vita indicato da tutte le linee guida.
Bibliografia
1Cheng G, Huang C, Deng H, et al. Diabetes as a risk factor for dementia and mild cognitive impairment: a meta-analysis of longitudinal studies. Intern Med J 2012;42:484-91.
2Prickett C, Brennan L, Stolwyk, R. Examining the relationship between obesity and cognitive function: a systematic literature review. Obes Res Clin Pract 2015;9:93-113.
3Cereda E, Sansone V, Meola G, et al. Increased visceral adipose tissue rather than BMI as a risk factor for dementia. Age Ageing 2007;36:488-91.
4Miquel S, Champb C, Dayc J, et al. Poor cognitive ageing: Vulnerabilities, mechanisms and the impact of nutritional intervention. Ageing Research Reviews 2018;42:40-55.
5Bernhardt NE, Kasko AM, Cereda E, et al. A Life-Course Contribution of Nutrition to Future Cognitive Decline. In: Bernhardt NE, Kasko AM, eds. Nova Sc. Publ. 2008, pp. 63-106.
6Aridi YS, Walker JL, Wright ORL. The Association between the Mediterranean Dietary Pattern and Cognitive Health: a Systematic Review. Nutrients 2017;9:674.
7Regolamento UE 2012; 16 maggio. Elenco delle indicazioni sulla salute consentite. EFSA J 2010;8:1734 e 2011;9:2078.
8Iacoviello L, Bonaccio ML, Cairella G, et al. on behalf of Working Group for Nutrition and Stroke. Diet and primary prevention of stroke: systematic review and dietary recommendations by the ad hoc working group of the Italian society of human nutrition. Nutr Metab Cardiovasc Dis 2018;28:309-34.
9Pistollato F, Iglesias RC, Ruiz R, et al. A Nutritional patterns associated with the maintenance of neurocognitive functions and the risk of dementia and Alzheimer’s disease: A focus on human studies. Pharmacol Res 2018;131:32-43.
10Yassine H. Targeting prodromal Alzheimer’s disease: too late for prevention? Lancet Neurol 2017;Oct 30.
11Ngandu T, Lehtisalo J, Solomon A, et al. A 2 year multidomain intervention of diet, exercise, cognitive training, and vascular risk monitoring versus control to prevent cognitive decline in at-risk elderly people (FINGER): a randomised controlled trial. Lancet 2015;385:2255-63.
12Andrieu S, Guyonnet S, Coley N, et al. MAPT Study Group. Effect of long-term omega 3 polyunsaturated fatty acid supplementation with or without multidomain intervention on cognitive function in elderly adults with memory complaints (MAPT): a randomised, placebo-controlled trial. Lancet Neurol 2017;16:377-89.
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La Scheda
Fagioli e fagiolini
Che cosa sono
Entrambi appartenenti alla famiglia delle Leguminosae, fagiolini e fagioli sono però differenziati per tipo di consumo (del fagiolino si consumano baccello e semi, del fagiolo soltanto i semi) e per composizione nutrizionale (valore energetico e tenore di nutrienti). In effetti, i fagiolini sono i baccelli immaturi del fagiolo, ricchi di acqua, ma con un apporto di proteine e carboidrati molto contenuto: per questo sono considerati in cucina alla pari degli ortaggi. I fagioli invece, nelle diverse varietà, sono ricchi di proteine come tutti i legumi e vanno consumati in alternanza con carne, pesce, derivati del latte e uova.
Che cosa contengono
Il valore energetico dei fagiolini che, come già accennato, sono costituiti per il 90% circa da acqua, è mode.sto. Ottimo invece l’apporto di fibre e più che valido anche quello di minerali, potassio e fosforo soprattut.to, oltre che di vitamina C e folati totali. Dal canto loro i fagioli (tutte le varietà) associano un apporto energetico decisamente più elevato a un contenuto di carboidrati (amidi per lo più) e proteine nutrizionalmente rilevante. Inoltre i fagioli sono ricchi di fibre. Alcuni studi ne hanno dimostrato l’effetto saziante. Il profilo nutrizionale dei fagioli è completato dalla presenza di potassio, fosforo, calcio (di cui sono ricchi) e ferro. Rispetto ai fagiolini, forniscono meno vitamina C, ma contengono più tiamina (vitamina B1). Da segnalare il contenuto di lecitina.

Che cosa bisogna sapere
In cucina i fagiolini sono consumati a partire preferibilmente dal prodotto fresco (o surgelato). Leggeri al gusto, rappresentano una buona fonte di fibre, che favoriscono il benessere intestinale. I fagioli sono offerti come prodotto fresco in baccello, ma anche surgelati, secchi (necessitano quindi di un lungo ammollo), infine come conserve, da utilizzare tal quale (sgocciolati e lavati per eliminare il sale in eccesso). Da ricordare: l’abbinamento dei fagioli con i cereali (pasta e riso) consente di assumere il panel completo degli aminoacidi essenziali. Gli amidi dei fagioli, poco digeribili dal nostro sistema enzimatico intestinale, possono essere poco tollerati, soprattutto da chi soffre di colon irritabile. Infine il consumo di fagioli (ma non quello dei fagiolini) è sconsigliato a chi presenta diverticoli del colon.
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