«Fa’ che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo»: ecco come, nel III Secolo prima di Cristo, Ippocrate già riconosceva il rapporto stretto tra alimentazione e salute dell’individuo. Oggi, dopo il completo sequenziamento del genoma umano attraverso lo Human Genome Project (2003), lo studio delle interazioni che nutrienti e composti della dieta hanno con i comparti cellulari e con la complessità delle reazioni biochimiche ha aperto un fronte inedito, complesso e affascinante: la comprensione del legame biunivoco tra alimentazione e DNA.
È un approfondimento che richiederà costanza e tempo, anche se sono già stati individuati più geni in grado di interagire in modo diretto con gli elementi della dieta e che da questi risultano profondamente influenzati. Questa doppia e reciproca interazione tra componenti della dieta e DNA è approfondita da due discipline della genetica e della biologia molecolare: la nutrigenetica e la nutrigenomica, al centro del 13° Congresso dell’International Society of Nutrigenetics and Nutrigenomics, appena tenuto a Cambridge (Gran Bretagna.)
Ne parliamo con Donato Angelino, membro del Comitato organizzatore dell’incontro e con Daniela Martini: entrambi lavorano all’Università di Parma, dove sono Assegnisti di Ricerca presso l’Unità di Nutrizione Umana.
DOMANDA: I termini nutrigenetica e nutrigenomica vengono proposti con sempre maggior frequenza anche dai media non scientifici. Quali sono le caratteristiche e le differenze di questi approcci di ricerca?RISPONDE D.A.: La nutrigenetica (o genetica nutrizionale) studia l’impatto della diversità genetica degli individui sul metabolismo dei nutrienti e dei composti introdotti con la dieta. Ognuno di noi ha un proprio DNA, che condiziona la risposta dell’organismo ai vari alimenti e quindi l’effetto sulla salute. Un aspetto cruciale di questi studi riguarda infatti, come preciserò più oltre, l’interazione tra dieta e DNA individuale in presenza di una mutazione genetica.
Opposta e complementare alla nutrigenetica è la nutrigenomica (o genomica nutrizionale), che studia invece l’impatto sul nostro genoma esercitato dai diversi elementi (macronutrienti, micronutrienti e composti bioattivi) introdotti con la dieta: ognuno di essi, infatti, è in grado di influenzare l’attività di alcuni geni e, di conseguenza, anche l’attività delle cellule da questi regolata.
D.: È possibile chiarire queste definizioni con qualche esempio pratico?D.A.: Non bisogna lasciarsi intimorire dai termini. Si tratta di studi che ci impegneranno per anni, ma che sono centrati su processi con cui abbiamo molta familiarità. Per quanto riguarda la nutrigenetica, ho accennato in precedenza all’interazione tra dieta e DNA nei portatori di una mutazione genetica. In questo ambito, un quadro patologico riconducibile a una mutazione genetica che mette a serio repentaglio la salute, dopo contatto con determinati alimenti, è il favismo.
Condizione nota da secoli, il favismo dipende dalla presenza di una o più mutazioni genetiche a livello del cromosoma X, che finiscono per alterare la disponibilità, o l’efficienza, di un enzima (glucosio-6-fosfato deidrogenasi), necessario per portare a termine diverse reazioni metaboliche.
Nello specifico, la scarsità o l’inefficienza dell’enzima non permettono di tamponare lo stress ossidativo indotto da due potenti composti ossidanti, divicina e convicina, contenuti soprattutto nelle fave (anche se non esclusivamente): le conseguenze, potenzialmente letali, sono shock emolitico (degenerazione dei globuli rossi) e deficit della funzionalità del fegato.
L’unica contromisura per ora possibile è l’eliminazione degli alimenti che contengono queste sostanze ossidanti, prima tra tutti le fave (e i derivati), la cui presenza dovrebbe essere chiaramente indicata in etichetta.
L’interazione negativa tra introduzione di questi alimenti e DNA è un esempio lampante della necessità di approfondire la nutrigenetica.
D.: Ci sono esempi altrettanto evidenti nel caso della nutrigenomica? Risponde D.M.: Per quanto riguarda la nutrigenomica, una delle maggiori interazioni tra nutriente e genoma avviene con l’acido folico (o vitamina B9). Questa vitamina è essenziale per il corretto svolgimento di reazioni che, nel nucleo della cellula, provvedono a costruire e mantenere sana la doppia elica del DNA, oltre che a promuoverne la corretta attività.
Una carenza di acido folico, in qualunque età della vita, può compromettere queste reazioni: le conseguenze sullo stato di salute sono facilmente intuibili. Ecco perché assicurare un costante e adeguato apporto di questo micronutriente è indispensabile già prima dell’avvio di una gravidanza e durante la gestazione: lo sviluppo corretto del feto, soprattutto quello del suo sistema nervoso, dipende dalla disponibilità immediata di questa vitamina, la cui carenza aumenta esponenzialmente il rischio di patologie fetali gravissime, come la spina bifida.
A livello di popolazione generale, del resto, a fronte di studi che hanno dimostrato un’introduzione carente di acido folico con la dieta, le autorità sanitarie hanno promosso la supplementazione con acido folico di alcuni prodotti di largo consumo, tra cui la pasta o i cereali per la prima colazione.
D.: La domanda successiva è quasi ovvia: se l’interazione degli alimenti con l’organismo dipende dal DNA individuale, il traguardo ultimo sembra identificarsi con una nutrizione personalizzata. Come si sta muovendo la ricerca in questo campo?D.A.:La premessa è: alimenti e loro costituenti non interagiscono con il solo genoma (nutrigenomica), ma anche con gli altri elementi dell’organismo.
Da qui ha preso le mosse il gruppo di scienze “omiche”, destinate proprio ad approfondire sia le risposte individuali ai diversi composti della dieta e sia come l’assetto genetico di ciascuno indirizza il metabolismo dei nutrienti (grassi, carboidrati, proteine). Diventerà quindi sempre più comune sentir parlare di “nutritrascrittomica”, in base alla quale si capirà quali effetti hanno gli alimenti sui prodotti di trascrizione del DNA che portano alla sintesi delle proteine; nasce da qui un affinamento ulteriore della ricerca, la “nutriproteomica”.
Gli effetti degli alimenti su tutti gli altri metaboliti prodotti dal nostro metabolismo cellulare sono infine l’oggetto della “nutrimetabolomica”.
Queste frontiere inedite della biologia, tutte insieme, sono alla base della più ampia Nutrizione Personalizzata (Personalized Nutrition), tema molto dibattuto al Congresso di Cambridge.
Gli interventi dei ricercatori dal podio sono stati completati da esercitazioni pratiche, in cui è stata più volte ribadita l’opportunità offerta dallo studio del singolo individuo e del suo patrimonio genetico e metabolico per individuare una dieta personalizzata, che lo mantenga in salute e riduca il rischio di malattia.
La semplificazione estrema di questi concetti è: se finora abbiamo avuto a disposizione un solo negozio con abiti di taglia standard, ora possiamo individuare un sarto, a cui passare strumenti e dati necessari per tagliare e cucire un vestito su misura delle nostre esigenze e che ci faccia sentire bene nel tempo.
D.: Come si inserisce, in questo quadro complesso, il ruolo del “gusto personale”?D.M.: In effetti, la scelta del tipo di alimenti in base ai propri “gusti” è stato uno dei temi più approfonditi a Cambridge.
Il termine “gusto”, infatti, non si riferisce alla sola accezione edonistica, ma possiede anche una ben nota funzione biologica: escludere dalla dieta cibi potenzialmente tossici (ancestralmente, quelli caratterizzati dal gusto amaro), oltre che condizionare la preparazione e la digestione dei piatti.
Molta attenzione continua a suscitare una scoperta recente, foriera di sviluppi non banali (anche se va confermata da studi di popolazione di ampia portata): sembra infatti che il cavo orale ospiti, in alcune papille gustative, anche recettori per il gusto grasso, così come già accade per il salato o per il dolce.
In base al numero e al tipo di recettori, si potrebbero quindi raggruppare individui che avvertono questo gusto (definiti taster), accanto ad altri che non lo avvertono (non-taster) o, infine, che lo avvertono in maniera spiccata (supertaster).
Poiché il numero e il tipo di questi recettori sono regolati a livello genetico, ecco che, ancora una volta, dobbiamo tornare al nostro DNA come fonte e guida delle scelte personali.
D.: Le mutazioni a carico di questi geni potrebbero essere, almeno in parte, responsabili di alcuni comportamenti alimentari controproducenti per la salute cardiovascolare e metabolica, come l’assunzione eccessiva di cibi grassi?D.M.:Rispondo citando studi recentissimi, in cui è emerso che i recettori del gusto grasso sembrano interagire positivamente con i recettori dell’amaro. Il gusto amaro è infatti tra quelli più finemente regolati a livello genetico: come ho accennato in precedenza, era considerato salvavita, poiché molte sostanze tossiche contengono molecole che a noi risultano amare. Questi recenti studi comportamentali hanno evidenziato che i soggetti nontaster del gusto amaro riescono a discriminare meno anche tra cibi a diverso contenuto di grassi e, di conseguenza, tendono a consumarne di più, promuovendo nel tempo un maggior accumulo di tessuto adiposo.
D.: Non si può concludere questa chiacchierata senza toccare un altro aspetto del rapporto tra alimentazione e salute, che sta suscitando molto interesse tra i ricercatori come tra il pubblico: il ruolo del microbiota intestinale. Che cosa è stato detto a Cambridge?D.A.:Il microbiota intestinale, ossia l’insieme di microrganismi che popola il nostro intestino, ha un ruolo ben definito nel modulare la relazione tra i composti introdotti con la dieta, il nostro patrimonio genetico e le varie funzioni delle nostre cellule. Ricordo che alcuni composti bioattivi, non assorbiti lungo il tratto gastrointestinale, sono invece metabolizzati dai batteri intestinali; ne risultano metaboliti, che raggiungono tutte le cellule dell’organismo, esercitando poi i loro effetti.
Un esempio semplice è quello delle fibre: non digerite dall’organismo, ma processate dal microbiota, possono portare alla formazione di acidi grassi a catena corta, la cui attività modulatoria della colesterolemia è ben nota. Ulteriore esempio sono i polifenoli, fitocomposti presenti in frutta, verdura, cereali ma anche in bevande quali caffè e tè: scarsamente assorbiti nel canale digerente, sono abbondantemente modificati dai batteri presenti nel tratto del colon, rilasciando metaboliti il cui effetto biologico è ancora largamente inesplorato.
Anche in questo caso, comunque, non si può prescindere dalla variabilità interindividuale.
Il microbiota intestinale è un ecosistema complesso e personale: qualunque modificazione del tipo e della quantità di batteri in grado di metabolizzare i componenti degli alimenti potrebbe scatenare una cascata di reazioni che, dall’alterazione nella produzione dei diversi metaboliti potrebbe a sua volta modificare l’effetto biologico finale.
In conclusione, la nutrigenetica e la nutrigenomica, così come le altre scienze “omiche”, sottolineano la necessità di approfondire, anche in campo alimentare, le caratteristiche del singolo individuo, abbandonando man mano gli studi centrati su ampi gruppi di popolazione. La ricerca è estremamente attiva, anche se per ora con poche ricadute pratiche. Ma siamo ottimisti: probabilmente già dalla prossima generazione sarà routinaria la collaborazione tra nutrizionisti e laboratori di genetica, per fornire al professionista sanitario il profilo genetico del soggetto, in grado di guidare il consiglio alimentare più adatto per le sue esigenze di benessere e di mantenimento della salute a lungo termine.