La prevenzione cardiovascolare guarda oltre la qualità della dieta e la quantità degli alimenti che la compongono, per analizzare il ruolo dei tempi e dei modi di consumo dei pasti. Esprime il proprio parere l’American Heart Association (AHA) con un documento, pubblicato su Circulation, che esamina sia i concetti acquisiti, sia gli aspetti che meritano ulteriori approfondimenti. L’analisi ha considerato i maggiori studi condotti in tutto il mondo, da cui sono scaturiti dati statisticamente affidabili sulle abitudini alimentari di soggetti (uomini e donne) tra i 18 e i 75 anni, non fumatori, tendenzialmente sedentari, o solo moderatamente attivi. Ecco i risultati.
Il punto sul primo pasto della giornata
Il dato di apertura è una conferma: la prima colazione continua a essere “il pasto più importante della giornata”, anche se un suo consumo regolare, negli Stati Uniti e in tutto il mondo (Italia compresa) è costantemente diminuito negli ultimi 40 anni. L’attenzione della ricerca nei confronti della prima colazione era cresciuta, osservando che la disaffezione progressiva al primo pasto della giornata corrispondeva a un altrettanto progressivo aumento del tasso di sovrappeso e obesità, con le ben note ricadute negative sul rischio cardiometabolico e di malattie croniche.
La prima colazione (per gli Anglosassoni breakfast, cioè rompi-digiuno) si identifica o con il «consumo di cibi e bevande (acqua esclusa) prima delle 9 del mattino» o, più in dettaglio, come «primo pasto della giornata consumato prima, o all’avvio delle attività quotidiane, entro 2 ore dalla sveglia, non oltre le 10 del mattino, che fornisce il 20-35% del totale calorico».
Tutti gli studi considerati identificano gli adulti non consumatori della prima colazione tra i più giovani, tra coloro che preferiscono cenare tardi, hanno un elevato apporto calorico, sono tendenzialmente sedentari, fumatori, forti consumatori di alcolici.
Altro dato da non trascurare: tra chi salta la prima colazione è più frequente un apporto non adeguato dei nutrienti fondamentali (74% contro il 41% dei consumatori di prima colazione), ma anche un più elevato consumo di zuccheri aggiunti.
Tutti gli studi, ovunque condotti, mettono in luce che il mancato consumo della prima colazione si associa con un aumento del BMI (Body Mass Index). In altri termini, tra chi consuma regolarmente la prima colazione si riduce sia il rischio di sovrappeso e obesità, sia soprattutto il rischio di obesità addominale, rispetto ai non consumatori. Non stupisce quindi che, per i consumatori regolari della prima colazione, si metta in luce anche un miglior controllo di altri fattori cardiovascolari: colesterolemia (livelli adeguati di LDL e HDL), pressione arteriosa, metabolismo glucidico. Tra digiuno protratto fino al pranzo di metà giornata e rischio di diabete conclamato di tipo 2 i legami sarebbero ancora più evidenti, secondo i dati del Nurses’ Health Study e dello Health Professionals Follow-up Study. Prova definitiva è l’associazione tra assenza di breakfast e aumento del rischio di malattie cardiovascolari, emerso in diverse popolazioni e in più studi.
Digiuno intermittente, tempi e frequenza dei pasti
Il digiuno intermittente ha guadagnato in popolarità negli ultimi dieci anni, praticato secondo due modalità: il digiuno a giorni alterni e il digiuno periodico. Nel primo caso, si alternano 24 ore in cui si assume il 25% (o meno) del fabbisogno energetico per sesso, età e condizioni, a 24 ore in cui si ha accesso libero al cibo. Nel secondo, il digiuno viene seguito per un massimo di due giorni alla settimana, con i restanti 5-6 giorni ad alimentazione libera.
I dati degli studi condotti da più di un decennio per valutare l’impatto di queste due modalità non soltanto sul peso, ma anche sugli altri parametri cardiometabolici (colesterolo LDL, trigliceridi, pressione arteriosa, glicemia, insulinemia) hanno fornito buone evidenze sul rapporto tra digiuno intermittente e calo ponderale, anche se non è stato ancora chiarito se la perdita di peso permanga nel tempo.
Sia il digiuno a giorni alterni, sia il digiuno periodico riducono la trigliceridemia, ma non hanno effetti sui livelli di colesterolemia totale, LDL e HDL. Il riequilibrio della pressione arteriosa si associa a un calo ponderale almeno del 6%. Il digiuno intermittente, inoltre, riduce sia l’insulinemia a digiuno, sia la resistenza insulinica, ma non modifica la glicemia a digiuno. Il panel di esperti auspica perciò studi randomizzati e controllati in grado di verificare la persistenza di questi effetti anche oltre le 52 settimane. In conclusione, per quanto riguarda il rapporto tra frequenza dei pasti e perdita ponderale, il documento dell’American Heart Association sottolinea che gli studi disponibili non sono abbastanza rigorosi e che, per questo motivo, non consentono di trarre conclusioni affidabili.
Più consistenti sono invece i dati che emergono dall’analisi dei tempi dei pasti. C’è un generale consenso sul legame tra consumo dei pasti nelle ore più tarde della sera (senza lasciare un intervallo di almeno due ore prima di coricarsi) e aumento del rischio cardiometabolico. Infatti, il rischio di obesità e di sindrome metabolica è maggiore per coloro che cenano più tardi, e ancora di più se saltano la prima colazione. Ma anche il pranzo, se dilazionato dall’una del pomeriggio alle 16-16.30, stimola il picco di cortisolo nel sangue (il cortisolo è chiamato anche “ormone dello stress”).
Il problema riguarda soprattutto i turnisti, costretti a rivoluzionare anche la scansione giornaliera dei pasti, nei quali si evidenziano una riduzione della tolleranza al glucosio e dell’insulinemia e un aumento dei trigliceridi se assumono un pasto completo tra mezzanotte e l’una di notte, indipendentemente dal sesso.
Infine, anche se basandosi su studi brevi e su pochi soggetti, il documento statunitense segnala come evitare di nutrirsi per almeno 12 ore (serali e notturne), limitando l’accesso al cibo nelle 12 ore rimanenti (dalla mattina presto) riduca sia l’introito calorico complessivo sia, di conseguenza, il peso (da 0,4 kg in due settimane a 3,3 kg in 16 settimane).
Masticatori veloci o lenti
Anche la velocità con cui si consumano pasti o snack ha un ruolo nel determinare l’assunzione complessiva di calorie. Una metanalisi sottolinea come i lenti masticatori assumano meno calorie dei consumatori veloci, anche se la differenza tra i due gruppi è limitata (“small to medium”). Stupisce invece che il lasso di tempo dedicato al consumo di un pasto, (10 o 30 minuti), non abbia ripercussioni sul senso di sazietà nelle ore successive. Si tratta però di dati non conclusivi e che, soprattutto, non danno informazioni sull’eventuale rapporto tra modalità di assunzione e andamento del rischio cardiometabolico.
Che cosa significa “intentional eating”
Due concetti emergono su tutti nel documento AHA: l’irregolarità dei pasti è deleteria per il mantenimento del peso e di una ottimale salute cardiometabolica; la risposta migliore è la promozione del cosiddetto “intentional eating”, che potremmo tradurre con “approccio alimentare consapevole” (Tabella), che si foca- lizzi proprio sulla regolarità dei tempi e della frequenza di assunzione calorica (vale a dire pasti, spezzafame e merenda), per tagliare in modo salutare il traguardo energetico quotidiano.
Grazie all’ “intentional eating” il consumatore sarebbe educato in modo semplice a riconsiderare la qualità dell’alimentazione, più che l’apporto calorico, inquadrando le occasioni alimentari dal punto di vista del corretto contributo quotidiano in termini di macro e micronutrienti piuttosto che della sola quantità di calorie introdotte.
Questo approccio, tra l’altro, ridurrebbe il consumo eccessivo di cibi e bevande ad alta densità energetica e a basso contenuto di nutrienti.

Gruppi di popolazione che meritano approfondimenti
Gli esperti dell’AHA sottolineano le lacune che la ricerca nutrizionale è chiamata a colmare con urgenza. Dati non conclusivi ci sono per esempio su come affrontare, dal punto di vista nutrizionale, il rischio obesità in bambini e adolescenti: avrebbero infatti bisogno di ulteriori conferme (non avendo di fatto prodotto risultati definitivi) le ricerche che hanno evidenziato l’opportunità di far rispettare i tre pasti principali a orari regolari, per contrastare il rischio di sovrappeso e di altri fattori predittivi di malattie cardiovascolari.
Ancora: modalità e frequenza dei pasti in relazione al rischio cardiovascolare dovrebbero essere meglio precisati anche negli anziani. La salute nutrizionale di questa fascia di popolazione deve infatti trovare l’equilibrio tra due esigenze: da un lato, l’introito calorico moderato, necessario al mantenimento del peso e al controllo dei fattori di rischio cardiovascolari e, dall’altro, l’adeguata assunzione di macro e micronutrienti essenziali, di cui le diete delle persone anziane sono spesso carenti.
Infine, nel documento si sottolineano con preoccupazione i dati di prevalenza di obesità e ipertensione che continuano ad affliggere le popolazioni con una maggiore predisposizione genetica (i neri e i nativi americani, le donne americane native del Messico, gli abitanti delle Isole del Pacifico).
Conclusioni
- Sovrappeso e obesità rappresentano un fattore di rischio cardiovascolare rilevante. Il ruolo dell’alimentazione è stato perciò riveduto dai cardiologi dell’American Heart Association, alla luce delle evidenze della ricerca nutrizionale più recente.
- I due parametri fondamentali di una corretta gestione dell’alimentazione quotidiana risultano la frequenza e gli orari dei pasti, a cui fare riferimento come “pasti principali” e “snack” (in Italia con snack si intendono sia gli spezzafame di metà mattina, sia la merenda di metà pomeriggio).
- La durata dell’intervallo tra un’assunzione calorica e l’altra, oltre alla qualità dei nutrienti e alla quantità di energia introdotta in ogni occasione, sono la base per inquadrare frequenza e orari corretti.
- La prima abitudine scorretta e molto diffusa (fino al 30% della popolazione anche in Italia) si conferma il mancato consumo della prima colazione, che è uno dei tre pasti principali.
- Altrettanto scorretto è posticipare il pasto serale, senza lasciare un adeguato intervallo di digiuno con la prima colazione (l’intervallo ottimale sarebbe di almeno 12 ore).
- Emergono conferme anche per un progressivo alleggerimento dell’assunzione di calorie nel corso della giornata. Questo approccio aiuterebbe anche a comporre pasti e snack con una visione orientata sulla qualità dell’alimentazione, in termini di apporto di nutrienti, più che sulla quantità.
- Infine, merita un approfondimento il ruolo del digiuno intermittente (alternare un giorno a ridottissimo apporto calorico, = 25% del totale e un giorno ad alimentazione libera).
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