Si chiama neofobia al cibo il rifiuto ad assaggiare cibi che non si conoscono. Sulla neofobia la ricerca lavora da tempo, perché questa forma di rifiuto preconcetto verso alimenti mai provati (o addirittura verso alimenti noti, ma presentati in modo diverso) riguarda soprattutto verdura, frutta e legumi: l’associazione con una carenza di nutrienti essenziali ne è la conseguenza principale, tanto più preoccupante perché la neofobia al cibo è soprattutto infantile. Con Michele Sculati, medico e specialista in Scienza dell’Alimentazione, proponiamo un aggiornamento sul tema e sulle possibilità di arginare la comparsa di comportamento neofobico al cibo, intervenendo già durante la gravidanza.
DOMANDA: Che cos’è la neofobia al cibo?RISPOSTA: È il rifiuto, spesso immotivato, ad assaggiare cibi mai provati in precedenza. Quasi sempre il neofobico al cibo non sa spiegare il perché del suo rifiuto. Certo è che questa preclusione preconcetta è un condizionatore potente del comportamento alimentare, che si ripercuote in modo negativo su gran parte delle scelte alimentari decisive per la salute, come il consumo regolare di verdura e frutta. Non solo: spesso il neofobico rifiuta anche gli alimenti proteici, che siano di origine animale, o vegetale (legumi). L’alimentazione del neofobico è quindi quasi invariabilmente povera di alcuni nutrienti.
D.: Quando si manifesta la neofobia al cibo?R.: Senz’altro le età più bersagliate sono la prima e la seconda infanzia, anche se non sono esenti nemmeno le età successive. Agire presto e bene per contrastare il rischio di neofobia è quindi indispensabile.
D.: Quali sono i fattori coinvolti nella manifestazione neofobica al cibo nella prima e seconda infanzia? R.: Molti. Iniziamo dallo sviluppo del senso del gusto. Sappiamo che la neofobia al cibo è un tratto in parte ereditario, ma è dimostrato anche che se ne possono modificare le ricadute sul comportamento alimentare. Ancora: sappiamo che la neofobia è più frequente laddove le esperienze sensoriali immagazzinate sono scarse. In altre parole: più il bulbo gustativo è esposto precocemente a esperienze sensoriali diverse e variegate, minore è la probabilità che il soggetto manifesti una neofobia al cibo.
Il gusto “sperimentatore”, infatti, si allena fin dalla vita fetale. Il liquido amniotico che entra in contatto con l’orofaringe del feto trasporta anche alcune molecole che riflettono i sapori dell’alimentazione materna.
Il secondo elemento su cui si può lavorare è l’evoluzione dell’apprezzamento gustativo individuale. I gusti, come sappiamo, sono cinque: dolce, salato, amaro, acido, infine “umami”, parola giapponese traducibile con “sapido”, che possiamo identificare con il sapore del glutammato. Che i bambini apprezzino senza incertezze il gusto dolce e, in seconda battuta, il salato e l’“umami”, è un dato noto. Di primo acchito, invece, sono rifiutati proprio l’amaro e l’acido, tipici di molta verdura e di quasi tutta la frutta.
Ma è dimostrato che l’accettazione dei gusti può cambiare, anche radicalmente. Un esempio estremo e molto chiaro sono la mostarda, o la radice di rafano (parente del nipponico wasabi), che vengono percepiti a livello del rinofaringe: nell’infanzia questo sapore induce addirittura il conato di vomito, mentre in età adulta è ricercato tra gli alimenti di nicchia. È ovvio che a nessun bambino si proporranno mostarda e rafano,ma è la dimostrazione lampante che è possibile cambiare radicalmente i propri gusti.
Terzo elemento, spesso poco considerato: la cultura dell’ambiente in cui si forma il gusto alimentare e la socialità sono cofattori potenti nel condizionare l’accettazione di un gusto diverso.
D.: Come si può prevenire la neofobia?R.: La risposta è ovvia: incoraggiare la madre a privilegiare la qualità degli alimenti, introducendo tutta la varietà di verdura (ben lavata), frutta e legumi che le stagioni offrono. Durante gravidanza, allattamento e svezzamento, le mamme sono più attente alla propria alimentazione, si informano e sono disposte a cambiare alcune abitudini. È un periodo stimolante da sfruttare, anche per allenare nel bambino il senso del gusto, oltre a quello del tatto e della coordinazione motoria, necessaria per portare alla bocca il cibo: insomma, il cibo come esperienza a 360 gradi.
D.: Evoluzione del gusto: che cosa bisogna sapere?R.: Quando si parla di alimentazione, si sottovaluta sempre la potenzialità di apprendimento dei bambini. La prima occasione (e forse la più decisiva) per agire sono i mesi dello svezzamento, in cui si avvia l’introduzione dei cibi diversi dal latte materno (o dalle formule). La ricerca su questo punto è molto attiva e ha dimostrato che si possono ottenere ottimi risultati, anche se è necessario impegno.
Che cosa sappiamo? Che l’amaro (gusto tipico di molte verdure) è, per un bambino, sgradevole. La mimica facciale non inganna e il pianto segue quasi sempre. Ma non bisogna demordere: è dimostrato che l’offerta ripetuta porta all’accettazione. In pratica, se l’offerta viene ripetuta, anche soltanto una volta alla settimana, al massimo al mese, è più probabile che si trovino le condizioni utili all’accettazione dell’alimento. A volte senza apparenti spiegazioni logiche, come nel caso della piena accettazione di una verdura a pochi giorni dal netto rifiuto della stessa.
Il gusto acido riserva invece sorprese: sulle prime il piccolo resta quasi sconcertato e atteggia la mimica al rifiuto, ma subito dopo, a sorpresa, frequentemente accetterà, anzi, mostrerà di gradire molto il gusto acidulo (o francamente acido) della frutta, o dello yogurt bianco. La ricerca di oggi, tra l’altro, non fa che confermare quanto Charles Darwin aveva già osservato nel 1877, quando annotava: «Il senso del gusto, almeno per quanto ho potuto osservare nei miei figli molto piccoli, è diverso da quello degli adulti. Essi non rifiutano il rabarbaro mescolato a un po’ di latte e zucchero che, per noi adulti, è invece una mistura disgustosa. Apprezzano anche la frutta più acida e aspra, come alcune mele e l’uvaspina non matura».
Ecco la chiave per aprire la porta al consumo di frutta, verdure acidule e yogurt da parte del bambino, che resterà con ogni probabilità un consumatore di questi alimenti (e di alimenti con un gusto simile) per tutta la vita, con un vantaggio indubbio per la salute.
D.: Come sfruttare il terzo elemento: cultura e ambiente?R.: Mettiamoci nei panni del bambino: se l’offerta dell’alimento amaro o acido è accompagnata dall’atteggiamento diffidente, o francamente disgustato di chi glielo propone, l’approccio è perdente da subito. Offrire un cibo nuovo in un ambiente rumoroso, o poco sereno, predisporrebbe chiunque al rifiuto.
Far passare alla prole i capisaldi dell’alimentazione corretta richiede infatti apertura e cultura da parte di chi se ne occupa. Non è facile, ci vuole molta pazienza, ma dà buoni risultati.
Per esempio, lasciare che il bambino più piccolo manipoli il cibo ignoto è fondamentale: la prima conoscenza che il bambino ha del mondo passa dalle manine, prima ancora che dagli occhi e, subito dopo, si passa all’assaggio. È un gesto automatico. Lasciare che il bambino costruisca un’esperienza personale, con i propri tempi e modi, stimola la sua curiosità ed è un ottimo punto di partenza. Sfruttare la finestra temporale dallo svezzamento (eventualmente attraverso l’alimentazione complementare a richiesta) fino ai due-tre anni è molto più semplice che cercare di correggere, attorno ai 6 anni, abitudini acquisite.
Infine, molte madri ammettono che questo impegno verso il piccolo le ha portate ad assaggiare nuovamente alimenti fino a quel momento poco graditi e a decidere di consumarli.
D.: Qual è, secondo le conoscenze attuali, il quadro della neofobia al cibo nelle età successive?R.: Nell’adolescente il rifiuto del cibo non sempre è neofobia, ma si può inserire nel mosaico noto di comportamenti di opposizione, il cui scopo è cercare la propria identità e strada personale. È implicito che un comportamento di rifiuto del cibo ostinato e progressivo vada colto come un segnale ben diverso dalla neofobia e debba essere valutato sotto il profilo psicologico.
Per quanto riguarda gli adulti e gli anziani, la ricerca ha dimostrato che la neofobia al cibo è espressa nella popolazione fino ai 40-50 anni. Dopo i 50 anni, anche il neofobico più irriducibile cambia atteggiamento e si avventura nell’assaggio, quasi sempre con successo.
Nella persona anziana, invece, spesso non siamo di fronte a una neofobia al cibo, quanto a modificazioni della percezione gustativa secondaria a farmaci, o associata all’età. L’alterazione del gusto porta anche al rifiuto di alcuni alimenti consumati con regolarità fino a quel momento.
D.: Chi soffre di neofobia al cibo è esposto a carenze nutrizionali che possono compromettere la salute?R.: È dimostrato che la neofobia al cibo è diretta soprattutto su tre categorie di alimenti: verdura, frutta e alimenti proteici, in primo luogo la carne. Sono senz’altro le forme più frequenti proprio nella fascia d’età più bersagliata, quella infantile. È intuitivo che una forte restrizione diretta per esempio al consumo di verdure a foglia (molti la definiscono in senso spregiativo “erba”) penalizza nello specifico l’assunzione di acido folico, mentre il rifiuto alla frutta (agrumi) influisce negativamente per esempio sulla vitamina C. Questi sono soltanto esempi, ma ogni verdura e ogni frutto hanno un patrimonio di vitamine e minerali caratteristico e non sostituibile.
Tornando però alla carenza di acido folico, sappiamo che è particolarmente diffusa nei paesi con la tipica alimentazione occidentale. Negli Stati Uniti il problema è particolarmente sentito, tant’è vero che la fortificazione con acido folico è obbligatoria per legge in tutte le farine.
È altrettanto intuitivo che un rifiuto della carne come fonte proteica può essere vicariato dal consumo vario e continuamente alternato di uova, latticini, legumi e cereali. Non sostituibile è invece il ruolo di verdura e frutta.
D.: Quali considerazioni conclusive?R.: Si può fare molto di più, soprattutto in Italia, per valorizzare e sfruttare al meglio la disponibilità di alimenti del territorio, così vario da Nord a Sud. Di fronte a una neofobia è fondamentale non rassegnarsi, ma assaggiare o ri-assaggiare il cibo che non viene consumato abitualmente, lavorando su vari aspetti: variando la tipologia (nel caso dell’insalata provando le diverse varietà), o la consistenza (per esempio, se cucinato alla piastra il radicchio ha una consistenza differente), o i sapori (inserire le verdure in un burger vegetale, miscelandole ad altre, ne cambia sapore, ma anche consistenza) e facendo attenzione al contesto sociale ed emotivo in cui si vive l’esperienza. Essere circondati da persone in ansiosa attesa che si consumi un determinato alimento rende ancor più difficile affrontare la neofobia, mentre in un ambiente più informale, in cui al consumo dell’alimento è associato un vissuto piacevole, è possibile creare condizioni più favorevoli all’assaggio.