La popolazione umana che abita il pianeta terra ha raggiunto 7 miliardi e 800 milioni di persone. Tutte hanno bisogno di nutrirsi nel modo più salutare possibile, ma accanto a questa esigenza c’è quella di salvaguardare il pianeta per le generazioni future.
Abbiamo affrontato i delicati argomenti dell’agricoltura, intesa come l’insieme di coltivazione e allevamento, cibo, ambiente e sostenibilità con il professor Giuseppe Bertoni.
DOMANDA: Come si possono conciliare due esigenze opposte, ed entrambe cogenti, come nutrire l’umanità assicurando al contempo la sostenibilità del pianeta?RISPOSTA: Innanzitutto occorre capire che cosa si intende per sostenibilità. Di solito con questo termine si fa riferimento agli aspetti ecologici, etici ed economici. Ne esiste però un quarto che è quello della salute umana, di cui la corretta nutrizione è prodromica. L’umanità si divide grossolanamente in due: tre miliardi di persone sono ancora affette da malnutrizione dovuta a mancanza di cibo in assoluto, ma anche a una dieta estremamente monotona, uniforme, carente di proteine di origine animale e dei micronutrienti indispensabili per mantenere l’organismo sano. Gli altri assumono cibo a sufficienza e talora in eccedenza, compreso quello di origine animale, andando incontro a obesità e alle patologie non trasmissibili tipiche dei paesi industrializzati, come diabete e sindrome metabolica, ma anche malattie cardiovascolari e tumori. Interventi che si possano definire sostenibili devono tenere conto di tutti questi aspetti e bilanciarli in modo equo, con la consapevolezza che sono strettamente interconnessi tra loro e che non esistono soluzioni semplici o facili all’interno di un sistema così complesso.
Agire su un solo fronte può portare a ricadute che a livello globale possono essere perfino dannose.
D.: Ci può fare un esempio per capire meglio?R.: Se diminuiamo la produttività di un alimento a livello Europeo – aspetto prettamente economico - per esempio perché vogliamo ridurre l’agricoltura intensiva preferendo le produzioni biologiche, a minore resa, ma non riduciamo i consumi del suddetto alimento, è possibile che aumenti l’importazione da paesi dove i limiti produttivi sono maggiori e le rese più basse. A fronte di una maggiore richiesta, che porta con sé un interesse economico crescente, gli abitanti tenderanno a incrementare la produzione, ma solo aumentando le superfici dedicate. Questo andrà a discapito della biodiversità locale perché aree naturali verranno convertite a coltivazioni (per esempio disboscando). Si rischia dunque facilmente di ottenere a livello dell’intero pianeta un risultato esattamente opposto a quello che si desiderava, pur migliorando la situazione nella regione geografica dove si è messo in atto l’intervento iniziale.
D.: Esistono dei tabù nei confronti dell’innovazione?R.: Sì, e in gran parte sono immotivati. Basti pensare che la popolazione umana intorno al 1960 era di 3 miliardi di persone che utilizzavano una superficie a uso agricolo pari a 4,5 miliardi di ettari, di cui 1,5 coltivati. Da allora la superficie coltivata è quasi immutata: ha smesso di crescere - come accadeva in precedenza - in modo proporzionale all’aumento degli abitanti del pianeta, che nel frattempo sono più che raddoppiati. Il legame più popolazione, più cibo necessario, più superficie occupata dall’agricoltura è stato spezzato grazie alla rivoluzione resa possibile dall’agricoltura intensiva: la green-revolution.
D.: Perché all’agricoltura intensiva viene spesso attribuita una connotazione negativa?R.: Essenzialmente per mancanza di conoscenza e perché spesso la divulgazione di questi temi viene affidata a persone esperte in altri ambiti, che non hanno una visione abbastanza approfondita della complessità dei problemi connessi e di come possano essere risolti. Proprio come è accaduto per il Covid-19 e i vaccini, la cassa di risonanza mediatica si sofferma sui pochi aspetti negativi e li amplifica, tralasciando di rilevare e sottolineare gli enormi effetti positivi documentabili e quantificabili. Il World Resources Institute (WRI) nel report del 2019 afferma che “il singolo intervento più importante per andare incontro all’esigenza di produzione di cibo (sufficiente per quantità ma anche nutrizionalmente appropriato) e a quella di protezione dell’ambiente è incrementare l’efficienza di utilizzo delle risorse naturali” (Searchinger et al., 2019), dunque la produttività. In particolare, non è pensabile, con la popolazione mondiale odierna, tornare a situazioni di “indigenicità” (cioé tradizionali), come viene proposto da qualcuno in modo superficiale.
D.: Perché il termine “naturale” viene percepito sempre e solo come positivo?R.: Direi soprattutto per superficialità. Non ci si sofferma a pensare, per esempio, che i vegetali presenti in natura sono in buona parte tossici per l’uomo, alcuni perfino mortali (aconito, cicuta, molti funghi…). La storia dell’umanità (almeno dal neolitico in poi) è caratterizzata in ogni suo aspetto dal tentativo di modificare la natura a proprio favore, per garantirsi una vita migliore.
Anche la semplice cottura di un alimento, che tutti facciamo ogni giorno, è un procedimento “non naturale”, che consente di rendere commestibili alcuni alimenti che altrimenti sarebbero come minimo indigesti. La semina stessa non è naturale. Bisogna quindi capire la differenza che intercorre tra assicurare, giustamente, la sostenibilità del pianeta e l’intangibilità assoluta della natura.
D.: Che cosa ci può dire riguardo agli allevamenti intensivi, invece?R.: Esistono delle descrizioni false e preconcette degli allevamenti di animali da reddito. Bisogna partire da due presupposti. Il primo è che non è vero che gli animali allevati intensivamente siano necessariamente in condizioni peggiori rispetto a quelli selvatici o lasciati in uno stato pressoché naturale (si pensi ai nemici naturali, alla periodica carenza di cibo e di acqua, agli eccessi climatici ecc.). Il secondo è che una alta produzione – se geneticamente giustificata e correttamente gestita – non implica per forza animali stressati e sofferenti. Un buon allevamento garantisce infatti almeno 3 o 4 delle 5 libertà di Brambell (1965), che sono garantire acqua e cibo sempre disponibili; garantire confort proteggendo dalle avversità ambientali; difendere da malattie, parassiti e dolore; garantire un comportamento naturale e prevenire paura e sofferenza. Indubbiamente, l’allevamento intensivo è meno compatibile con i comportamenti naturali, ma l’alternativa implicherebbe aumentare enormemente le superfici del pianeta dedicate all’allevamento, con grave compromissione della biodiversità e delle aree rimaste ancora oggi naturali.
Sempre dal WRI arriva l’avvertimento che se non ci sarà un adeguato aumento della produttività di alimenti nel mondo e si continuerà con l’idea che sia più opportuno passare ad agricoltura e allevamenti estensivi, per sfamare la popolazione esauriremo nel giro di pochi anni tutte le superfici rimaste di foresta che oggi ancora esistono. Le stime, infatti, calcolano che entro il 2050 ci saranno circa 10 miliardi di persone.
D.: Come è possibile salvaguardare la biodiversità del pianeta?R.: Per prima cosa promuovendo una genitorialità responsabile in modo da rallentare l’incremento di popolazione. Contemporaneamente sviluppando coltivazioni e allevamenti intensivi ma “sostenibili”, che consentano di non aumentare il terreno necessario alla produzione di cibo per l’uomo e per gli animali (sia allevati sia da compagnia). Per farlo occorre sfruttare le conoscenze scientifiche e tecnologiche in modo responsabile ed etico, in un’ottica di salute globale.
Mi riferisco al fatto che salute umana, animale e del pianeta sono del tutto interconnessi e l’approccio da utilizzare è quindi quello olistico riassumibile dalla locuzione dell’OMS “One Health”. Occorre inoltre un intervento educativo, sia per rendere disponibili nei paesi in via di sviluppo le tecniche di produzione più avanzate e meno impattanti sull’ambiente, sia per far capire ai singoli abitanti della terra come è costituita una dieta sana e sostenibile, in modo da ridurre la malnutrizione e le malattie prevenibili. Ciò implica anche un uso sobrio del cibo dove è abbondante.
D.: Può dirci di più a questo proposito?R.: Bisogna capire che dieta sostenibile e dieta salutare non sono necessariamente la stessa cosa. Una dieta perfettamente sostenibile da un punto di vista ambientale può non essere affatto salutare. Ad esempio, è relativamente facile non andare incontro a squilibri nutrizionali adottando una dieta vegetariana o vegana in un paese come il nostro dove è possibile acquistare ogni tipo di frutto, ortaggio o legume immaginabile. Meno lo è quando il cibo a disposizione, e non per scelta, si limita a riso/cereali, occasionalmente a manioca e foglie di amaranto o di altre piante, con qualche fagiolo o pesce ogni tanto. È quindi errata anche l’idea che per ottenere una dieta sostenibile e salutare sia necessario abolire del tutto o quasi gli alimenti di origine animale.
D.: Sembra di intuire che gli interventi sulla dieta per renderla più sostenibile vadano in direzione diversa nei vari paesi del mondo.R.: È proprio così. I fabbisogni nutrizionali sono simili per tutti, ma non altrettanto cibi e consumi. Chi consuma alimenti animali in eccesso, ossia in particolare i cittadini dei paesi industrializzati, dovrebbe ridurli, mentre sarebbe molto utile per combattere la malnutrizione introdurre una quota di proteine animali e incrementare la varietà di alimenti nelle popolazioni più disagiate dei paesi in via di sviluppo. Nel primo caso l’invito è alla sobrietà. Nel secondo sarebbero necessari anche interventi di educazione alimentare. Esistono popolazioni nel mondo, per esempio in India, la cui lingua non contempla neppure i termini “proteine” e “carboidrati”. In questi casi risulta particolarmente difficile orientare la dieta, far capire come dovrebbe essere composta per rimanere in salute e il contributo nutritivo che apportano i vari alimenti. Tuttavia anche nei paesi “ricchi”, dove vengono promosse periodicamente campagne di salute alimentare, non è detto che la popolazione riesca ad aderirvi nella pratica, sottoposta come è a ogni genere di tentazione facilmente accessibile oltre che a messaggi a dir poco contraddittori e dunque fonte di confusione.
D.: Quali altri interventi si possono mettere in atto per diventare più sostenibili?R.: È importante ridurre le perdite e gli sprechi alimentari, comprendendo qual è la differenza tra i due concetti. Le perdite sono rappresentate da tutto ciò che, dopo la produzione, non riesce ad arrivare alla distribuzione e quindi alla tavola per vari motivi, per esempio un attacco di insetti nocivi, muffe ecc. Tuttavia, anche una produttività ridotta rispetto a quella ipoteticamente realizzabile su una superficie (per esempio causata da avversità varie prima della raccolta), potrebbe essere considerata una perdita. Gli sprechi invece sono quelli che ognuno di noi può evitare, avendo cura di non comprare cibo in eccesso rispetto al periodo temporale in cui si mantiene per essere consumato; da notare che la surgelazione consente di conservare intatte le proprietà nutritive di un alimento riducendo lo spreco. È spreco anche tutto ciò che viene tolto dai banchi dei negozi di alimentari e gettato via perché non più ottimale nell’aspetto o la mancata raccolta di frutta di forma irregolare che non appaga l’occhio del consumatore e non verrebbe acquistata. In tutta onestà, ci si dovrebbe chiedere quanto di tutto ciò può essere evitato (e non semplicemente contenuto).
D.: Esistono altre aree di intervento per garantire la sostenibilità al pianeta oltre a quella sul fronte alimentare?R.: erto. Il concetto di sobrietà andrebbe applicato a tutti i fronti dei consumi, non solo a quello alimentare, evitando eccessi, perdite e sprechi. La deforestazione, per esempio, non viene messa in atto solo per ragioni agro-alimentari ma anche per produrre bio-combustibili, legna da ardere, legnami pregiati da costruzione o per andare in cerca di risorse minerarie e petrolifere in aree promettenti. Quanti sanno che i cellulari contengono minerali rari da estrarre in qualche parte del mondo, talora forestata?
D.: Chi è a favore dell’agricoltura biologica sostiene che consente di ridurre le emissioni di CO>sub>2. È vero?R.: L’affermazione è vera solo in apparenza, perché si basa su un calcolo per ettaro di superficie coltivata. Non dobbiamo dimenticare, però, che la resa delle coltivazioni biologiche è minore e che quindi per ottenere una stessa quantità di prodotto la superficie deve aumentare. Facendo un confronto più opportuno e logico, ossia calcolando l’emissione di CO2 a parità di prodotto ottenuto, il risultato è a favore dell’agricoltura intensiva che consente un’emissione decisamente inferiore.
Per capire possiamo utilizzare i dati relativi alla produzione di latte: nel 1944, quando la produzione poco intensiva era di circa 2.500 l/capo/lattazione, l’emissione era di 3,6 kg di CO2 per litro di latte prodotto, mentre nel 2007 la produzione era pari a circa 9.000 l/capo/lattazione grazie all’intensificazione, con una emissione di 1,7 kg di CO2, sempre per litro di latte prodotto (Capper et al. 2009).
D.: C’è una fonte di ispirazione particolare nel suo lavoro?R.: Da cristiano più di una, ma in calce alle mie comunicazioni per e-mail mi piace riportare due citazioni rivolte a ricercatori-scienziati, una del premio Nobel per la pace Joseph Rotblat e una di Papa Francesco.
“Prometto di lavorare per un mondo migliore, in cui la scienza e la tecnologia vengano impiegate in modo socialmente responsabile. Non utilizzerò le mie conoscenze per alcun proposito che possa danneggiare gli esseri umani o l’ambiente. Nel corso della mia carriera terrò conto delle implicazioni etiche del mio lavoro prima di agire. Anche se le richieste che graveranno su di me potranno essere grandi, firmo questa dichiarazione perché riconosco che la responsabilità individuale è il primo passo sul percorso verso la pace” (proposta di giuramento “ippocratico” per gli scienziati; da Joseph Rotblat, Peace Nobel Prize, 1995. Science, 1999, vol. 286, pag. 1475).
“Perché quanti sono impegnati nella ricerca scientifica si pongano al servizio del bene integrale della persona umana” (Francesco, Papa).
Bibliografia di riferimento
Bertoni G. Human, Animal and Planet Health for Complete Sustainability. Animals. 2021; 11:1301.
Bertoni G, Tabaglio V. Lotta alla fame nel mondo: qualche considerazione sulle strategie operative. AgriCulture. 2018
Capper JL, Cady RA, Bauman DE. The environmental impact of dairy production: 1944 compared with 2007. J Anim Sci. 2009;87:2160-2167.
Mottet A, de Haan C, Falcucci A, et al. Livestock: On our plates or eating at our table? A new analysis of the feed/food debate. Glob Food Sec. 2017;14:1-8.
Searchinger T, Waite R, Hanson C, et al. Creating a Sustainable Food Future: A Menu of Solutions to Feed Nearly 10 Billion People by 2050 (Final Report). WRI 2019.