Introduzione
Utilizzate da sempre soprattutto per insaporire o per conservare i cibi, le spezie possiedono interessanti proprietà digestive conosciute fino dall’antichità. Solo negli ultimi decenni, tuttavia, ricerche scientifiche, di base e cliniche, hanno studiato i meccanismi d’azione con cui le spezie agiscono, e hanno permesso di evidenziare la loro capacità di indurre un aumento della secrezione degli acidi biliari a livello epatico, migliorando la digestione e l’assorbimento dei grassi, e di stimolare significativamente l’attività di una serie di enzimi come la lipasi pancreatica, l’amilasi e alcune proteasi. In seguito ad un pasto arricchito con le spezie, quindi, la digestione è in genere sensibilmente più rapida, e il tempo di transito del cibo nel tratto gastrointestinale è ridotto.
Inoltre le spezie, essendo prive di valore energetico, non solo insaporiscono alimenti e bevande senza aumentarne l’apporto calorico, ma promuovono anche la termogenesi corporea e aumentano il senso di sazietà. Alcuni di questi composti, in particolare (come il pepe nero, lo zenzero e la capsaicina del peperoncino) potrebbero contribuire al mantenimento del bilancio energetico e alla prevenzione del sovrappeso. Altri componenti delle spezie, secondo dati recenti, svolgono poi effetti biologici potenzialmente interessanti (di natura Antiossidante, per esempio): il loro uso, quindi, può presentare interessanti sorprese nell’ottica della relazione tra alimenti e salute.
Pepe nero
Il pepe nero viene ottenuto dalle bacche acerbe del Piper nigrum, a differenza del pepe bianco che viene estratto dalle bacche mature. E’ la spezia più diffusa al mondo e, benché venga utilizzata prevalentemente in campo alimentare per rendere più piccanti i cibi, trova largo impiego nella preparazione di farmaci e di cosmetici, come conservante e come insetticida. Analogamente alle altre spezie, il pepe aumenta la secrezione dell’amilasi salivare, della lipasi pancreatica, dell’amilasi, della tripsina, della chimotripsina e della lipasi intestinale. Le proprietà digestive del pepe sono correlate alla riduzione del tempo di transito del cibo a livello del tratto gastrointestinale, grazie all’effetto sia sugli enzimi digestivi che sulla secrezione biliare.
L’oleoresina che si estrae dal pepe contiene l’olio essenziale che gli conferisce l’aroma, e soprattutto la piperina, un alcaloide irritante che non ha né odore né sapore, ma che modifica significativamente l’intensità del gusto e quindi la percezione dei sapori, ed in particolare dell’amarezza e dell’acidità. Come le altre spezie piccanti il pepe, alle dosi comunemente utilizzate, non danneggia la Mucosa gastrica; al contrario in letteratura è stata descritta un’azione protettiva della piperina nei confronti dell’ulcera gastrica indotta sperimentalmente nel ratto e nel topo.
Inoltre, secondo i risultati di studi sperimentali, la piperina interagirebbe con i lipidi di membrana delle cellule intestinali, modificandone la struttura, aumentando la lunghezza dei microvilli, e quindi della superficie assorbente, e la permeabilità. Infine, in un recente studio condotto sui topi, la piperina somministrata a basse dosi mostra un effetto lassativo, mentre ad alte dosi mostra attività antisecretoria e antidiarroica.
Queste osservazioni giustificano il tradizionale utilizzo del pepe nero nella preparazione di miscele di erbe impiegate nel trattamento dei disturbi della motilità intestinale.
Studi in altri modelli animali hanno dimostrato che la piperina aumenta la biodisponibilità di diversi nutrienti e di alcuni farmaci, dei quali inibisce il metabolismo in modo non specifico, ed influenza la spesa energetica o termogenesi, soprattutto agendo sul sistema nervoso simpatico, la cui attività è inversamente correlata al grasso corporeo.
Ricerche in vitro hanno dimostrato per la piperina un’attività protettiva contro il danno ossidativo, che è stata solo parzialmente confermata dagli studi in vivo: a basse concentrazioni essa si comporterebbe quindi come trasportatore (e quindi, funzionalmente, da “neutralizzatore”) di radicali liberi, mentre a concentrazioni elevate funzionerebbe da generatore dei radicali stessi. Nel ratto l’aumento delle difese antiossidanti in seguito a somministrazione di piperina si riflette sulla riduzione dell’ossidazione delle lipoproteine LDL, sulla protezione dal danno ossidativo associato al Diabete mellito, sull’effetto chemopreventivo e sul controllo dell’ossidazione indotta da una dieta ad elevato contenuto di grassi.
Documentata a livello sperimentale è anche l’attività antinfiammatoria della piperina, che in un modello di macrofagi peritoneali in vitro sarebbe in grado di inibire la risposta infiammatoria indotta dal lipopolisaccaride. Inoltre in un modello sperimentale di artrite in vivo, la piperina si è dimostrata in grado di inibire l’Infiammazione indotta da urato monosodico.
Recentemente è stata infine evidenziata un’attività neuro protettive della piperina, che, in un modello sperimentale che riproduce la patologia di Alzheimer nel ratto, ha avuto effetti positivi sulle “performances” di memoria e ha ridotto significativamente la neurodegenerazione a livello dell’ippocampo, probabilmente in associazione ad un riduzione dell’attività dell’Enzima acetilcolinesterasi.
Peperoncino e capsaicina
Il peperoncino deve il gusto particolarmente piccante ad un alcaloide, la capsaicina, componente caratteristico del frutto di Capsicum, nel quale probabilmente funge da deterrente nei riguardi degli animali erbivori.
E’ ormai dimostrato che la capsaicina provoca il rilascio della sostanza P da alcuni nocicettori, desensibilizzando le terminazioni nervose che diventano insensibili al calore eccessivo ed agli stimoli chimici, e perdono la capacità di rilasciare i mediatori coinvolti nella trasmissione nervosa e nell’Infiammazione. Si ottiene così un effetto analgesico che è stato sfruttato per la preparazione di applicazioni per uso topico da impiegare in casi di dolore cronico, come la neuropatia diabetica e i dolori neuromuscolari. Una revisione sistematica che ha considerato sei studi controllati in doppio cieco, condotti per più di quattro settimane, ha permesso di concludere che la somministrazione topica di una soluzione allo 0,075% di capsaicina è efficace nella riduzione del dolore, che è diminuito del 50-60% rispetto al trattamento placebo. Due trials clinici invece ne hanno valutato l’effetto nella nevralgia posterpetica, un dolore neuropatico che interessa circa il 40% dei pazienti con più di sessant’anni un mese dopo l’attacco di herpes zoster. L’applicazione di capsaicina si è rivelata efficace in alternativa agli antidepressivi triciclici, che rappresentano il trattamento di elezione. Un recentissimo studio randomizzato condotto nella stessa tipologia di pazienti, ha confermato l’efficacia della capsaicina, somministrata in forma di cerotto transdermico.
Anche il dolore associato all’osteoartrosi sembra essere ridotto, anche se in modo meno significativo, dall’uso topico di capsaicina soprattutto con l’aggiunta di glicerolo trinitrato che riduce il rischio di irritazione cutanea.
La capsaicina trova impiego anche nell’aumento della funzione vescicale e per ridurre l’incontinenza urinaria, nella riduzione della nausea e del vomito nel decorso postoperatorio, ed è stata testata nella cura del prurito associato all’insufficienza renale e come gastroprotettore nel trattamento con antinfiammatori non steroidei.
La capsaicina è tra le spezie che hanno un effetto favorevole sulla spesa energetica, sull’ossidazione dei grassi e sul controllo dell’appetito, in associazione con l’aumento dell’attività del sistema nervoso simpatico. Aumentando il flusso ematico a livello gastrointestinale e modulando le sensibilità neuronali, che influenzano la motilità intestinale, e il rilascio di ormoni da parte delle cellule intestinali, la capsaicina sarebbe in grado di modulare appetito e sazietà. L’effetto sulla sazietà sembra dovuto ad un meccanismo che coinvolge un particolare recettore, denominato TRPV-1. Secondo uno studio recente, il consumo di circa 1 mg di peperoncino ricco in capsaicina nella fase postprandiale aumenta le concentrazioni di GLP-1 (glucagone like peptide) e tende a ridurre i livelli plasmatici di grelina, confermando quanto già osservato con concentrazioni più elevate dell’alcaloide.
L’attivazione dello stesso recettore TRPV-1 sembra inoltre coinvolto nelle proprietà benefiche della capsaicina a livello cardiovascolare: secondo un recente studio la capsaicina promuoverebbe il rilascio di ossido nitrico e l’abbassamento della Pressione arteriosa.
Curcuma
Benché utilizzata nella tradizione indiana soprattutto come antinfiammatorio, il principio attivo della curcuma, o turmerico (il rizoma e la radice della Curcuma longa, che appartiene alla famiglia dello zenzero), e cioè la curcumina, che è il pigmento che conferisce al curry il caratteristico colore giallo, sembrerebbe possedere attività diverse.
Oltre all’uso in cucina per dare colore ai cibi e come conservante, la curcuma viene infatti impiegata nella medicina tradizionale indiana per trattare diversi disturbi, come la flatulenza, la dissenteria, le ulcere, l’artrite e le infezioni della cute e dell’occhio. La curcumina è stata isolata per la prima volta nel 1815, e già all’inizio del secolo scorso veniva utilizzata per la cura delle malattie biliari, come antibatterico e per ridurre i livelli di glucosio nel sangue. Negli ultimi 10 anni il mondo scientifico si è sempre più interessato alle proprietà di questa spezia, che si è rivelata anche un efficace Antiossidante, antivirale, antiproliferativo ed antinfiammatorio. Studi in vitro, in particolare, hanno dimostrato la capacità della curcumina di inibire la COX2, la Lipossigenasi e la Nitrossido sintasi, gli enzimi principali coinvolti nell’Infiammazione. Inoltre, gli stessi studi in vitro evidenziano la capacità della curcumina di inibire l’attivazione del fattore i trascrizione Nf-kB, un importante mediatore dell’Infiammazione. Probabilmente, come conseguenza di questa inibizione, la curcumina si mostra in grado di ridurre la secrezione di alcune citochine pro-infiammatorie, come l’interleuchina-6 e l’interleuchina-9.
L’osservazione che molti tipi di cancro sono più comuni in occidente che non in India, dove si verifica un alto consumo di curcumina con la dieta, ha fatto pensare ad una sua potenziale attività antitumorale: studi in vitro hanno dimostrato che la curcumina è in grado di ridurre l’angiogenesi in cellule endoteliali umane; inoltre sembrerebbe inibire l’espressione del gene p53, che svolge un ruolo fondamentale nell’evoluzione di diversi tipi di cancro. Per queste proprietà, la curcumina è stata testata sia come agente chemioterapico che chemiopreventivo in diversi modelli animali di carcinogenesi: da questi studi sono emerse le proprietà protettive della curcumina a livello intestinale ed extraintestinale. Inoltre, risultati di un trial clinico condotto su 25 pazienti, hanno suggerito che la curcumina, somministrata per via orale, può avere effetti chemio preventivi sulla progressione di lesioni pre-maligne o ad alto rischio.
Nonostante siano circa 2500 gli studi in vitro e in vivo che hanno valutato le proprietà della curcumina, solo poco più di 40 sono gli studi clinici condotti perlopiù su piccoli numeri di soggetti. In generale essi hanno indicato che la curcumina a dosi elevate, fino a 15 g al giorno, assunte per bocca per un periodo di tempo inferiore ai tre mesi, è del tutto sicura.
Dosaggi compresi tra i 450 mg e i 3,6 g al giorno sono stati testati in pazienti con cancro colorettale. Sei mesi di trattamento con circa 1,5 grammi al giorno di curcumina sono risultati efficaci nella riduzione sia del numero che della dimensione dei polipi in pazienti affetti da poliposi adenomatosa familiare.
L’effetto della curcumina è stato dimostrato in diverse malattie infiammatorie croniche nell’uomo: in soggetti con morbo di Crohn ha permesso la riduzione del trattamento farmacologico, in alcuni casi di colite ulcerosa si è dimostrata efficace nel mantenimento della remissione e in associazione con la piperina ha ridotto il livello di perossidazione lipidica in pazienti con pancreatite.
Poiché la perossidazione dei lipidi di membrana mediata dai radicali liberi è considerata, insieme all’Infiammazione, una delle cause principali di patologie croniche come quelle cardiovascolari e neurodegenerative, è stato ipotizzato che la curcumina possa trovare impiego preventivo o terapeutico in questo campo. Alcune osservazioni epidemiologiche in popolazioni di anziani asiatici confermano infatti che coloro che consumano regolarmente curry, e quindi curcumina, hanno una migliore performance comportamentale e intellettuale rispetto a coloro che non ne fanno mai uso. Per questo recentemente la curcumina è stata proposta come farmaco potenziale per il trattamento dell’Alzheimer, e studi preliminari animali hanno dimostrato il miglioramento del quadro clinico associato alla patologia e la riduzione del deficit cognitivo in modelli sperimentali animali, anche se non hanno ancora permesso di chiarirne i meccanismi. Nonostante questo, il primo studio clinico condotto non ha dimostrato effetti benefici della curcumina, ma probabilmente dovuto al fatto che non si è verificato un significativo declino cognitivo nel gruppo placebo Vi sono attualmente tre trials clinici in corso atti a definire l’efficacia della curcumina sul declino cognitivo.
Cannella
Anche la cannella comune (Cinnamomum verum, C. zeylanicum) e cassia (C. aromaticum) è da sempre una delle spezie più utilizzate, per una serie di impieghi. Già citata nella Bibbia, in Egitto era elencata tra gli ingredienti delle preparazioni utilizzate per imbalsamare le mummie, e nella tradizione veniva somministrata come astringente e germicida. E’ anche uno dei più antichi trattamenti utilizzati per la bronchite cronica. L’aroma e il gusto pungente dell’olio contenuto nella corteccia della cannella vengono sfruttati anche per la preparazione di prodotti per l’odontoiatria, di farmaci e di cosmetici, nonché per condimenti, dolci, bevande e per aromatizzare il tabacco. Ad esempio un componente dell’olio di cannella, la cinnamaldeide, è utilizzata nei dentifrici per mascherare il sapore del pirofosfato, composto da sapore sgradevole che inibisce la calcificazione della placca bloccando la conversione del calcio fosfato amorfo in idrossiapatite.
L’efficacia della cannella è stata esaminata nei confronti di diverse patologie, tra le quali il Diabete di tipo 2, l’infezione da Helicobacter pylori, la candidiasi associata all’HIV e la salmonellosi cronica. La maggior parte degli effetti studiati sono stati messi in relazione con le proprietà antiossidanti ed anti microbiche della cannella.
Le maggiori evidenze riguardano i benefici della Supplementazione con cannella nel controllo del Diabete: in due trials clinici su tre, infatti, la cannella cassia si è dimostrata efficace nel ridurre la glicemia a digiuno del 10-40%. Un trial clinico recente conferma gli effetti benefici della cannella su pazienti affetti da Diabete di tipo 2: l’assunzione di 2g al giorno giornalieri di cannella per 12 settimane infatti, sembrerebbe ridurre in maniera significativa i livelli di emoglobina glicata (8.22%), e la Pressione arteriosa.
Inoltre nei pazienti affetti da Diabete di tipo 2 la cannella migliorerebbe anche il quadro lipidico, riducendo la trigliceridemia ed i livelli di Colesterolo LDL (Tabella 1). La cannella cassia sembrerebbe più efficace in questo senso della cannella comune.
Un recente studio di intervento per il quale sono stati somministrati 6 g di cannella con un budino di riso ha permesso di evidenziare che la presenza della spezia riduce lo svuotamento gastrico, senza modificare il senso di sazietà, oltre a migliorare la risposta glicemica post-prandiale. Recentemente benefici sul controllo glicemico sono stati osservati anche con quantità inferiori di cannella, più vicine a quelle che potrebbero essere assunte con una dieta standard nella pratica quotidiana. L’aggiunta di 3 g di cannella allo stesso budino di riso si è infatti dimostrata efficace nella diminuzione dell’insulinemia post-prandiale e nell’aumento dei livelli di GLP-1 (glucagon-like peptide-1), un ormone gastrointestinale che stimolerebbe la secrezione glucosio-dipendente di insulina. Non sono stati descritti effetti sullo svuotamento gastrico e sul senso di sazietà con dosaggi inferiori ai 3 grammi di cannella. Studi a più lungo termine sono comunque necessari per dimostrare di effettivi benefici della cannella nel controllo del Diabete, che tengano anche conto degli effetti sui livelli di emoglobina glicata (che come è noto riflettono la media della glicemia nei tre mesi precedenti).
Esperimenti in vitro hanno dimostrato sia per la cannella comune che per la cannella cassia un’attività Antiossidante, soprattutto se consumata sotto forma di tè, che contribuirebbe all’effetto antidiabetico. L’estratto di cannella cassia inoltre, come emerge da studi in vitro, è un potenziale agente antitumorale: possiede infatti la capacità di inbire la proliferazione delle cellule tumorali e indurre la morte cellulare delle stesse, attraverso l’inibizione dei fattori di trascrizione Nf-kB e AP1.
Per quanto riguarda la sicurezza sia la cannella comune che la cassia sembrano generalmente ben tollerate e prive di effetti indesiderati, anche durante la gravidanza l’allattamento, alle dosi comunemente utilizzate per la preparazione dei cibi.
Zenzero
Lo zenzero, cioè il rizoma della pianta perenne Zingiber officinale Roscoe, contiene alcune centinaia di composti diversi, la cui concentrazione varia in base al paese d’origine, alla conservazione e al fatto che sia fresco o essiccato; esso deve comunque alla presenza dei gingeroli il caratteristico gusto pungente.
Sebbene venga coltivato per le sue proprietà medicamentose e culinarie da almeno 2000 anni, i suoi effetti antinfiammatori ed antiossidanti sono stati scientificamente confermati solo negli ultimi anni.
Studi in vitro hanno dimostrato che diversi componenti dello zenzero inibiscono in modo dose dipendente la produzione di nitrossido, di citochine infiammatorie e di alcuni enzimi che partecipano al metabolismo dell’acido arachidonico. Tutti questi composti sono mediatori coinvolti nel processo infiammatorio, che rappresenta un importante fattore di rischio per le malattie croniche ed in particolare per le patologie coronariche. Ricerche condotte in modelli animali hanno permesso di quantificare l’effetto antinfiammatorio dello zenzero, che in alcuni casi è simile a quello dei farmaci convenzionali, e di valutare la dose minima efficace che, secondo uno studio retrospettivo nell’uomo, sarebbe di 1 g al giorno. Dosi più elevate permetterebbero di ottenere effetti maggiori.
Il potere antiossidante dello zenzero è elevato grazie alla sua capacità di trasportare i radicali liberi e di proteggere i lipidi delle membrane cellulari dall’ossidazione. Secondo osservazioni nel ratto, lo zenzero riduce la perossidazione lipidica e aumenta i livelli di enzimi antiossidanti e di glutatione, dimostrando un’efficienza antiossidante analoga a quella dell’acido ascorbico.
In animali diabetici carenti del gene per l’apolipoproteina E o alimentati con una dieta iperlipidica, lo zenzero ha dimostrato di ridurre significativamente il colesterolo totale, le lipoproteine LDL e VLDL, i trigliceridi e i fosfolipidi, nonché la formazione di lesioni aterosclerotiche e di cellule schiumose, aumentando i livelli di colesterolo HDL, come i farmaci ipolipemizzanti. Nel fegato inoltre lo zenzero riduce la sintesi del colesterolo, stimolandone la conversione ad acidi biliari ed aumentandone l’escrezione fecale. Tali osservazioni tuttavia non hanno trovato confermategli studi condotti in pazienti cardiopatici con livelli di assunzione di zenzero inferiori ai 4 g al giorno
Anche l’effetto sull’aggregazione piastrinica, mediato dalla riduzione della sintesi di eicosanoidi (trombossani e prostacicline) è stato dimostrato esclusivamente in soggetti sani che hanno assunto 5 g al giorno di zenzero in associazione ad una dieta ricca di grassi, ma non in soggetti cardiopatici supplementati con 4 g al giorno per tre mesi.
In base ad alcuni dati sperimentali lo zenzero sarebbe inoltre in grado di bloccare i canali del calcio, sviluppando quindi un’attività antipertensiva e vasodilatante, che è stata dimostrata nell’animale, e che nell’uomo è stata parzialmente confermata dall’effetto sinergico della co-somministrazione di zenzero e nifedipina.
Infine alcuni studi suggeriscono come lo zenzero possa avere un potenziale impiego come antitumorale: ad esempio, il 6-shogaolo, contenuto nello zenzero, ha un’azione antimetastatica nei confronti delle cellule di cancro al seno, che avverrebbe attraverso una riduzione della secrezione di metallo proteinasi-9 e la soppressione del fattore di trascrizione Nf-kB.
Ma l’impiego più tradizionale dello zenzero è per la cura di diversi tipi di nausea e malessere, primi tra tutti quelli associati al mal di mare. I marinai che navigavano per lunghi periodi di tempo in alto mare consumavano infatti in passato 1 g di zenzero al giorno, che riduceva drasticamente i sintomi del mal di mare, ed in particolare la nausea e il vomito. Una recente revisione Cochrane supporta l’efficacia dello zenzero nel controllo della nausea durante la gravidanza, senza lo sviluppo di fastidiosi effetti collaterali. Infine una metanalisi di cinque studi randomizzati ne suggerisce l’utilizzo nella riduzione della nausea e del vomito anche durante il decorso post operatorio.
Conclusioni
I dati più recenti, in conclusione, mostrano come le spezie, selezionate nel tempo essenzialmente per il loro sapore, contengano in realtà composti dotati di interessanti attività biologiche. Il loro studio sistematico, secondo i principi classici della sperimentazione clinica controllata, ha aperto alcune interessanti prospettive di impiego delle spezie stesse (o di composti specifici in esse contenuti) nella prevenzione o nella terapia di alcune patologie molto diffuse nella nostra società.
Glossario
Antiossidante
Sostanza che impedisce o rallenta l'ossidazione.
Mucosa
Membrana di colore roseo che riveste la superficie interna delle cavità presenti nell'organismo.
Diabete mellito
Sindrome caratterizzata da iperglicemia cronica dovuta a carenza di insulina (diabete giovanile insulino-dipendente) o ad una resistenza anomala dei tessuti alla sua azione (diabete dell'adulto non insulino-dipendente) le manifestazioni cliniche sono nella fase acuta chetoacidosi (coma diabetico) e, a lungo termine, lesioni dei capillari (soprattutto renali e retinici) con aterosclerosi precoce e neuropatie.
Infiammazione
Complesso di reazioni che si verificano localmente in risposta ad un agente lesivo. Clinicamente è caratterizzata da 4 sintomi: tumefazione, arrossamento, aumento della temperatura localmente, dolore.
Enzima
Sostanza di natura proteica dotata di attività catalitica, cioè di attivare ed accelerare una reazione chimica. Risulta costituito da una parte proteica (apoenzima) e di un gruppo prostetico (coenzima).
Pressione arteriosa
Pressione del sangue nelle arterie dovuto all'attività contrattile del muscolo cardiaco e alla resistenza vascolare periferica, distinta in sistolica o massima e diastolica o minima.
Diabete
Una patologia che si verifica quando l’organismo non è in grado di utilizzare il glucosio ematico. I livelli di glicemia sono controllati dall’insulina, un ormone prodotto dall’organismo che favorisce l’ingresso del glucosio nelle cellule muscolari e adipose. Il diabete insorge quando il pancreas non produce abbastanza insulina o l’organismo non risponde all’insulina che è stata prodotta.
Supplementazione
Se i soggetti trattati sono ignari del fatto di aver ricevuto l'uno o l'altro dei trattamento testati, lo studio si definisce "in cieco". Se anche lo sperimentatore lo è, almeno fino al termine della raccolta dati, lo studio si definisce "in doppio cieco".
Colesterolo
Presente nel sangue, costituente essenziale della membrana cellulare, interviene nella formazione degli ormoni sessuali e corticosteroidei e dei sali biliari. Può essere di origine esogena (alimentare) ed endogena (sintesi epatica). Nel sangue il colesterolo è veicolato tramite i trigliceridi e le lipoproteine (HDL e LDL).
Trigliceridi
Sono sostanze lipidiche (grasse) che circolano nel sangue; la loro struttura è caratterizzata da una molecola di glicerolo a cui sono legate (esterificazione) tre molecole di acidi grassi; originano, in parte, dai grassi assunti con l'alimentazione, in parte vengono prodotti nel fegato e nel tessuto adiposo a partire da carboidrati.
Metanalisi
Tecnica che combina i risultati di molti studi, di impianto simile e che hanno esaminato quesiti simili, per aumentare la numerosità del campione di valori su cui si ragiona e quindi l'affidabilità delle conclusioni.
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